poesie

da Dentro il meraviglioso istante

I FANTASMI

*
Dal mare osservo il lungo riva.
Vi cerco antiche sagome, mitologie
del sogno che vivevo da ragazzo.
Fantasmi con una loro biografia
immaginaria, venuti a visitare
la parte che non so della mia vita.

*
Un coetaneo con gli occhi azzurri
che tutti confondevano con me.
L’attaccatura dicevano dei capelli,
la linea delle gambe, lo stesso naso.
Ci credevo davvero, quando appariva.
Nel coccodrillo l’avevo fidanzato
con una Serenella che non l’amava.
Temette penso più volte un assalto
per come lo fissavo
mentre piangeva il sangue dentro di me.
Non accadde mai nulla. Svaporò
nella fortuita coincidenza per cui dicono
ognuno abbia sei sosia sulla terra.
Eppure lo cerco ancora, dal mare.

*
I fantasmi hanno carne e visibilità,
non sono banali sagome che atterriscono
nel cuore della notte.
Hanno storia e destino, fanno strada
in parallelo con noi. Ci sono eppure
non ci sono del tutto. E tu li riempi
di un senso che ti appartenga.
Tutti abbiamo fantasmi che ritornano,
a volte su un cuscino per parlare
per stringere un’ombra caduta nel cuore.
Forse è l’angelo che chiamano custode
e fa alzare lo sguardo oltre il buio.
Però poi li incontriamo e sono vivi
dentro un giorno diverso. E chissà
se non siamo anche noi i loro fantasmi.

_________

La più che lenta stravolge la sua discesa,
batte sul coppo e rimbalza, si dondola
con curiosa allegria, mi fa l’occhietto
e sorride; oh che goccia bambina,
oh che non cresciuta goccia che gioca.
Una rugiada vitrea simile a pioggia
promette di crollare sopra le case
(è proprio come il cuore,chissà se esplode)
Ma lei torna, come una piuma.
Sospesa in non so che destino
ma così acquosa, così miracolosa

come una bolla di luce e di aria.

_________

DONEGAL

Da Kinsale a Inishowen
un muraglione di rocce difende
la terra ocra e muschiata, le poche case
là sopra come in un mondo parallelo,
dall’irruenza indomita del mare.
E s’aprono scenari d’altri universi,
come sugli altipiani islandesi di Kjölur
dove i cavalli dalla lunga criniera
trascolorano al verde tra i ghiacciai,
sospesi come in un limbo ultraterreno
domati da cowboys di un altro spazio.
È come l’anima
che si protende dallo sguardo
fermo sul limitare dello scoglio.
Una vampa interiore la scuote, la vibra,
la scioglie oltre il limite estremo
e lei si lascia fare, si concede.
Che grazia è mai questa, che energia
l’ha finalmente mossa? Che luce,
che innamoramento segreto?

__________

Rode il balcone un’orma di salino,
urtica la ringhiera, sfa le pietre.
Guardando l’orizzonte facilmente
l’occhio si illude di vedere il mare.
Ed esso c’è, scialbato, all’orizzonte,
ma è un rigagno d’argento a fine quadro.
Qui la sua aria screzia le colline,
invece, e scoppia e brivida in un’onda
di luce e di passione. Si ridesta
sui miei tetti il selvatico pomario
che squassa i coppi e ride alla ventura.
Mi associo al loro strappo, meraviglio
sornione in questo scampolo di vita.

(a Ludo)

_________

E quando l’ora porterà il traghetto
al porto, nelle luci del ritorno,
io so che guarderò fisso nel mare
disciolta ogni mia pena.
Sarò una forma d’aria che s’invola
verso il suo nido ultimo.
Come la luce bassa, la corrente
bianca sottomarina, la frescura
limpida dell’autunno, va l’azzurro
verso la terra. Guarderò nel mare
l’onda che devastava farsi luce.

_________

Le strade. Dove pullula la vita migliore,
la più anonima e indaffarata.
Le strade dove gli uomini si incrociano
e sognano la sera che cala
e li conduce agli svaghi
brevi come durata, intensi
nel desiderio. Poveri uomini,
amate spoglie sorelle
che tutti siamo parte del tutto
e gli uni degli altri
ma come è naturale non saperlo.

__________

La nostra debolezza si fa grande
delle piccole cose di ogni giorno.
Spesa, dottore, tasse, qualche incontro,
il giornale sfogliato nel caffè,
un titolo in vetrina che cattura.
Presto per l’aria brillerà la rondine
sfuggita come il sogno al sognatore.
Ma ne è in realtà l’effigie nella luce
che fa festa nei giochi dei bambini.
Dentro la vita semplice, così è scritto.

da Una bellissima storia (Stamperia dell’arancio, 2000)

I BEI TEMPI
Ora vedendo agitare la bacchetta
osservando la nuca un po’ più bianca
e un effluvio di umanità sprigionarsi
dalle mani, capisco
più lucidamente l’ansia di non morire.
Gli anni d’ateneo tornano rari
alla memoria e come giocavamo
noialtri ignari mentre si consumava
su una cattedra o un podio tutta la vita
e davvero non era per fare.
Conoscemmo Tschaikovski nelle ultime file
di un teatrino un po’ instabile
(imparavamo un po’ a morire e dunque
era importante che fossimo lì) ma sempre
ciò che merita coscienza scivola via.
Torna troppo più tardi
quando il prestigiatore svela il trucco
e nel sogno che si ricrea
mancano i nostri occhi spalancati, il grido
terribile e lieve dell’alba.

(a Kazimierz Morski)


@
Giunto alla stazioncina d’Albania
con tutti i memoriali nel borsone
e l’anello sul pollice
                                    mangiando
giù dalla carta nobilmente i piatti
la cui tipicità è non averne
e poi seduto sbivaccato sul divano
dietro lo stereo sguardo nel vuoto
nel pieno di un silenzio
uh filippuccio sbigottito dalla pace
che la finestra sigla sul panorama
e una faccia mai vista
a faccia vista toccando le pietre
l’umanità i libri del seicento i cd
calando giù le trame le orme
in un’ora di sciopero di ferie
dal pensare ossessivo quasi alla soglia
del troncamento alla fame
inesausta al bicchiere di Verdicchio
perché il rosée non è la stessa cosa
e il Maìtre sembra uscito da un film
e la chiesa mia omonima sta chiusa
e Gabri era così come la strofa
che chiude la canzone come le rose
che colmano il pomeriggio alla stazione
quando la littorina se ne riparte.
Ma tu dimmi se davvero è possibile
che sia passato un altro giorno di mercato
e il presepio sia ancora al suo posto
tra il mio disordine storico e la moka
dove non conviene fare i tre buchi
con lo stecchino ma semplicemente
strofinare le stringhe della forchetta
e sprecare minuti sul fornello
che non si accende mai. Sarà probabilmente
per la sicura antiscoppio per la soap
e quello di sotto che protesta se piove
se i panni sgocciolano se i piccioni se.
Ecco e io proprio a te stavo pensando
e a questo giorno formidabile e inutile
mentre salendo sulla littorina con la mano
grazie di tutto mi dici è stato proprio
un piacere conoscerti e speriamo
di rivederci presto meglio ancora
se al mio paese e dopo quando parte
ma speriamo rimanga un altro momento
così sospesi tra il binario e la banchina
oggi che doveva  essere freddo e invece
e in campeggio quella volta che sul treno
non c’era nemmeno un posto ma poi un mese
hai gustato la Grecia e ancora qui
disciolti e rigidi tra  le portiere meccaniche
con il capostazione che osserva e coglie l’attimo
e carpe il diem e fischia e sale a bordo
il macchinista. Tu dimmi
che questa stazioncina d’Albania
era vera stamattina e che eri tu
la persona che ha transitato come una nuvola
carica di non pioggia lucidamente
dentro queste pareti.

*
Ti parlerò d’amor mentre va il disco
segnato dal tempo e par quasi che dica
bella è la vita ma va
lungo i solchi scavati nelle case perbene
e gli arazzi che premono alle pareti.
Altri aratri dissodano i crinali
altre musiche vanno dritte dalle bocche
mescolate al sudore delle gole

e l’estate prorompe.


PC
Pensando al tradimento che dà il computer
dove non puoi tornare a rovistare
tra i suoni di un certo momento, eliminati
come la roccia che franando inghiotte
per sempre la miniera
c’è una mistura di omertà e maledizione,
di infime comodità. Forse le copre
il ticchettio gocciante della tastiera,
il pianoforte muto
delle fulminazioni.

da La luce, a volte (liberilibri, 2016)

C’era in un angolo dell’orto
ciò che restava di una pantegana:
la coda lunga, un dente, una miriade di mosche.
Là dove predava si era annidata la morte,
era esalato l’ultimo respiro. Spariva dal suo tempo.
La sotterrammo in un’aiuola lontana,
così come i grandi occultano il dolore.
Eravamo bambini con gli occhi tersi,
facevamo – ma i grandi sbagliavano a dirlo –
un gioco come un altro.


*
Il sorcio tirò dritto sotto i tavoli,
piegò verso il vicolo poi tornò verso il bar.
Sozzo, color di ghisa come il chiusino
in cui precipitò quando ci vide.
Trottolava grazioso, ma sembrava strisciasse
mentre schiacciandosi s’era infilato nella
fessura di un portone.

Sbucò sentendosi libero dopo un bel po’.
Saltellò sui gradoni di un negozio
– è chiaramente un cucciolo – dicemmo
temendone un assalto, perché mordono
qui in città i sorci. Era arruffato,
stranito dalla presenza di noi curiosi
(la coda una serpe, il musino levato
a sfida, a orrore nostro e suo).

Lo vedemmo sparire sotto di noi,
là dove dicono vi sia una città diversa
e orrifica. Chissà se pensava lo stesso
lui della nostra, mentre vagato un po’
dribblò verso il suo mondo.


*
Non serve esagerare con le parole.
Anche le note ne bastano poche, ma vere
– l’anima, l’anima…

                             era Chet che parlava,

lo diceva al giovane sax che riempiva
il soffitto di virtuosismi. E poi lui
lo sterminò con una nota sola.
Un lamento basso, interiore
che ci innalzò al tormento.


*
Con quale energia, con quale alterità
un uomo qualunque decide il troncamento
della sua esile trama? Con quale acume
sceglie il metodo (e vibra
il fendente mirato, e ammorbidisce
con il grasso la corda)?
Con quale ferocia uccide chi rimane
senza offrirgli uno scampo,
una parola che rimetta le colpe,
un sorriso che annulli lo strazio,
un varco, un pertugio per proseguire?
La vendetta è tremenda, insoverchiabile.
Il momento, quel momento preciso
in cui la soglia forzata s’è dischiusa
è valicato, ormai.

Da lì si snoda una spirale impietosa
che tutto rimpicciolisce
e allontana, in un vortice.
La sagoma che penzola, la spoglia
frantumata, il malloppo
d’ossa e di carne fradicia
s’attarda penosamente sullo sfondo,
spicca il suo dramma
da un’altra dimensione a noi ignota.
Sembra che ci interpelli, ma è soltanto
un male in dismissione, un referto
senza voce che la memoria eternando rimuove.

Voleva questo, mi chiedo? Voleva
non essere, o solamente non esserci più?
avrà pensato a sé stesso come al fagotto
calato nella dimenticanza della terra?
Come avrà fatto a staccarsi dall’anima,
a sganciarsi dal sangue?
Quanto dolore (o forse più nulla,
come un corto che leda i circuiti
e invogli con l’inganno di un limbo
in cui spegnere il fiato), mi dico:
quant’orrore dev’esserci stato?

*
Quando l’autunno arriva si assottigliano
i fantasmi degli amori che non erano
e non saranno. Il gioco ha termine.
Forse è la calura che li genera,
come il miraggio dell’acqua in un deserto.
Se almeno avessimo l’energia per resistergli
e non flirtare vanamente con le ombre.
Giocare agli adolescenti (noi tramontati)
come se la bobina si riavvolgesse davvero.
Sapessimo essere previdenti, invernali…

da Come all’origine dell’aria (L’Arcolaio, 2010)

TU CHE SAI

*
Il groviglio dei secoli come in un pugno
teso alla terra. Sì, è di terra la voce
dell’angelo incarnato, che dal gorgo
con le mani levate, agitando l’azzurro
come una bandiera di carne e di croce
spera e barcolla. Non cogli,
occhio che ascolti da una medesima terra,
che quella voce è la tua?

*
Ai giardini, sull’orlo del laghetto dove il sole si specchia
tra le erbe morte – foglie che il sabbione racimola
tra gli scarti del bordo, e che non ingoia, lasciandole
come viluppi irrisolti a ondeggiare nella piatta melmosa,
agitate da poca aria o smosse per gioco da una barchetta
di carta, soffiata dai bambini…
                                    qualche fitta mi toglie il respiro,
mi morde seduto tra i vecchi a riflettermi.

*
Madre, mia prima ed ultima sorella
cui forse ritornerò da polvere schiusa,
se leggi certo capirai chi sono.
Da tanti giorni nei giorni non ti penso
se non nelle preghiere.
Madre, fosti un tumulto
che sprofondava l’anima in delirio.
Poi ritornò la pace, ed eri e sei
la sorella segreta che mi volle
e questo di sicuro non è poco.
Sei il sangue che si ammala, sei le ossa
che cedono all’usura anticipata.
Sei gli atomi degli occhi, che sono tuoi.
E in tutto questo che tocco mi manchi.

*
Ci sono sospiri che non qualcuno non coglie.
Io li vedevo, ed erano raffiche.
Piombavano nei miei occhi sospesi.
E c’ero dentro, fino a tutta la vita.
Ma nulla è nuovo, è un mare antico come la storia.
Per esso si naviga insieme alcuni tratti
poi le onde sospingono altrove:
tutto, salendo verso l’orizzonte
cambia nome. Poi torna.
Lì comincia l’amore.

*
Portami il canto lieve della luce –
una traccia, un sigillo, un’opportuna
calma. Rendimi, tu che sai…

F. Davoli (foto di Rita Vitali Rosati)

da FIGURE SENZA ERBARIO (La Spina Editrice, Venezia, 2005)

È un mattino odoroso. La luce cala
come un manto sottile, alza le fibre
ricomposte dei campi.
È un mattino di bel silenzio. L’aria accarezza
fresca le mani strette sulla ringhiera
e lo sguardo che fugge. La solitudine
ha bisogno di un canto sussurrato.

*
Dall’abisso sale la luce
di una terra minuscola
la Parola è una vastità di chiarori
nel farsi dell’aria,
per quelle scure cavità di vita
dove  le ore si rivelano al loro doppio
e brillano sommerse in un loro fulgore
segreto.
                                 Come all’origine dell’aria.

*
Vorrei che queste non fossero parole
ma un piccolo testamento del volere.
Non però assimilabile a un lasciarsi andare,
quanto piuttosto una più piena coscienza.
Come la rondine che sigilla il lascito
in un volo infinibile.

*
Vorrei lasciare il mondo come la mano
che sfiora lieve la tastiera del pianoforte
e non perde respiro nel portamento
di legatura in legatura
e stacca quasi impercettibilmente
i grappoli di note.
Le dita sanno cosa detta il cuore.

*
Vorrei scivolare dentro l’acqua come un mistero
complice di chi vede e di chi sa,
tornare a quel primo giorno innocente
privo di scorie, senza memoria di altro
che dell’amore. Un amore schiodato.
Io sola carne vestita di luce
che sorrido al mio corpo.

*
Vorrei che almeno nel finale
si percepisse il senso dell’azzurro
come quando la tela delle nubi
si dirada e soccombe alla luce.
Ma non vi fu separazione dall’alto
nel profondo dei giorni.
In essi sempre un barlume
di significanza, la percezione
di come le cose si fanno compagne
oltre il rumore delle voci.
Vorrei giungere là
con lo sguardo già là da tempo immemore.

*
Vorrei che le parole che dicemmo
e che scrivemmo sparissero nel fuoco,
arse dentro l’amore.
Trasfigurati anche i volti, fatti cellule
della mia stessa pelle.
Il respiro di ognuno mi corre nel sangue,
ogni momento avverto che ritornano.
Aprimi all’eternità già da questo
preciso battito. In esso mi accompagna
la cecità visionaria dell’ascolto.

*
Vorrei lasciare un segno di rimando
all’ora della nascita. Significare
non altro che un pulviscolo su cui
la luce imprime un nome.
Eppure amo la mia pesantezza
dentro la quale si dischiude il mondo.
Particelle amorose nel mosaico
fibroso degli incontri.

*
Vorrei un destino di parola innamorata
che non si sazia di sé. Guarderei fedelmente
come mia stessa sposa chi sarò
e chi sono, chi ero. Vorrei
vibrare nel Corpo arioso
di un’infinita gratitudine.

*
Vorrei giungere fino a lui, lasciarmi
sedurre fino agli atomi da lui.
Mi inchioda stretto a un dolore amoroso
quando mi tocca e fugge ed io precipito
ad occhi aperti, afferrato su me.
Eppure lui mi circonda di tenerezza
e le sue orme le vedo ancora, lo riconosco
perché la sua è una voce che non si dimentica
e il suo respiro batte caldo al corpo.
Vorrei carpirlo, ma non è questo. È invece
chiudermi gli occhi e aprirmi alla luce
inesausta del suo volo.

*
Vorrei che si capisse che è per grazia.
La pagina fu tramite fiorito
del respiro e non altro. Solamente
nell’alone del transito si illuminava.
Oltre e durante ci segnava un vento
che leviga le pietre, un’acqua dolce
che dà forma alle cose.
Io lo dicevo come il dito indica.