
note
PASSEGGIANDO PER VIA TRENTO
Foto scattate passeggiando stamattina a Macerata lungo Via Trento, che indubbiamente non è una via fantasmagorica, quanto a decoro dei palazzi antichi. E pensare che il fronte degli stessi – su Corso Cavour – è invece di notevole eleganza. Qui, smog delle auto che corrono all’impazzata e colori ormai fatiscenti degli intonaci, rendono poco appetibili gli sguardi. Eppure, a modo loro, anch’essi hanno una bellezza; qualcosa di comunque familiare, di intuibilmente popolare almeno quanto – dall’altro lato delle facciate – paiono sottolineare la distinzione di chi li abita. Via Trento e Corso Cavour sono un curioso gioco di prestigio, dove l’architetto mentalista ha modificato la carta prescelta trasformandola non si sa come in un’altra; e sotto i nostri occhi!


DIALOGHI CANINI
Abbiamo fatto tosare Tea tre giorni fa. La mia curiosità era enorme, per scoprire se sotto quella massa infinita di pelo e di nodi si nascondeva un coccodrillo. Invece pare di no, è proprio una lagottina deliziosa. E pensare che tracanna qualsiasi cosa le passi davanti agli occhi: plastica, benzina degli accendini, stoffa, scarpe (quelle di cuoio sono le sue preferite), solette, pantofole imbottite, calzini, mutande, manici di coltelli, graniglia del pavè del balcone, battiscopa di legno, gambe delle sedie, tappi dell’acqua minerale, bottiglie di plastica (altro suo cult), manici delle valigie, libri (a casa mia gongola…). Disdegna soltanto aranci e mandaranci, ma ormai sono fuori stagione.In compenso parla. Le manca soltanto di fumare le mie sigarette, poi il connubio sarà perfetto. Osmotico. Nel frattempo, come dicevo, parla. Ha la sua lingua di segni (esistono, ho scoperto, anche dizionari di traduzione dal canino all’umano e viceversa; ma il viceversa, onestamente, non so come potrebbe leggerlo Tea…), ma anche una vivacissima intuitività che le consente di tradurre il suo linguaggio nel mio e di farsi capire alla perfezione.Puttanella!… Paraculina!… Si sa far voler bene, anche se a volte risulta detestabile. Per esempio con la palla. Ha ricevuto giochi articolatissimi e splendidi, eppure il suo divertimento prediletto rimane una palla di stoffa che le ha regalato il mio tabaccaio Francesco. E’ sempre lì con la sua palla tra i denti, che viene a portarmela per farsela prima strappare dopo una finta lotta, poi lanciare il più lontano possibile per andare a prenderla in una corsa sfrenata (e potenzialmente distruttiva di quello che ancora non ha rosicchiato…) e riportarmela per ricominciare. Mentre “benedico” Francesco per il regalo, mi chiedo quando la piccola peste imboccherà la strada della maturità dandosi una calmatina. Adesso se ne sta rilassata tra la mia camera e il terrazzo, assaporando i primi timidi ritorni di sole. Speriamo che la sperella di luce resista un po’, mi dico in segreto, evitando qualunque movimento che potrebbe ridestare la sua attenzione e riaccendere il desiderio del gioco della palla. Sono qui al pc che “buonigiorneggio” tra una bega e l’altra del lavoro. E dire che, come ogni mattina, abbiamo scarpinato allegramente… ma lei è indistruttibile. Anzi, ormai ho compreso che più si sfoga all’aperto, più si carica per quando rientra!Tosata è uno scricciolo, un agnellino setoso e tenero. E un formidabile scaldapiedi di notte, quando l’inverno che resiste a qualsiasi avvicendamento primaverile lancia i suoi ultimi strali, mentre le condizioni avverse in termini di energia scoraggiano le ultime accensioni dei caloriferi. Brava, piccola Tea, che scaldi i piedini di papàno. Purché – come hai fatto stanotte alle tre, chissà perché adesso questa news… – non mi bussi sulla tempia con la palla tra i denti per giocare anche al buio!

LA PRIMA VOLTA DI TENERISSIMO AMORE
Tornare a San Leonardo al Palco, rivedere alcune lunghissime barbe – segno visibile dei monaci della Comunità dei Ricostruttori nella Preghiera – e altrettante chiome ampie come la volta del Cielo. Dopo due o tre anni, in cui tante volte mi è capitato di ripensare a questo angolo di Paradiso, sospeso sopra il Bisenzio nella città di Prato: sono andato a presentare “Tenerissimo amore” per la prima volta.
Farlo lì non è la stessa cosa che in qualsiasi altro posto. E’ quasi un auspicio, un sigillo benaugurante. Per me: per poterci ritornare, dopo questa, una terza volta o chissà quante altre: al Palco il tempo si sospende, il silenzio parla la sua lingua iniziatica, la preghiera si stempera nel respiro e prende parte alle attività anche minuscole della quotidianità. Camminare nello splendido giardino all’italiana, raggiungere l’orizzonte dal limitare della pietra trecentesca che delimita la villa; e poi incontrare: i consacrati, le consacrate, quelli della fraternità che sono in supporto alla comunità pur non avendo preso i voti, e poi la gente che viene a partecipare agli incontri e per incanto si priva del guscio e si coinvolge.
Al Palco tutto questo succede con estrema naturalezza, e dunque la Bellezza è davvero alta e semplice. Per il libro: perché è un libro sui generis, non come i precedenti. Un libro che va a vivere di vita propria e, questo in fondo mi auguro, ad aprire una fessura di luce in chi lo incontrerà. Come scrive Gabriel Del Sarto (che è poi anche il mio editore, questa volta),
<Ecco il primo titolo della collana “Extra moenia”. Un sorta di concept album che mette in scena una voce che parla da un’altra epoca, in dialogo con personaggi e pagine del Nuovo Testamento.Questo libro di Filippo credo recuperi davvero la grande lezione di David Maria Turoldo, attraverso una voce mai stucchevole o dogmatica, per ribadire che un dialogo col divino è possibile, che forse è quello l’unico dialogo con una parte di sé altrimenti destinata a rimanere ignota, in un buio perenne.Ecco, forse, perché “luce” è la parola più amata da questo poeta coraggioso, che mai si arrende al non senso.Questa collana, nata dentro alcune nostre lunghe discussioni, ospiterà libri di diversi generi, ma con la stessa natura che si respira solo “fuori dalle mura”.>.
Un po’ “più in là”, come avrebbe detto Noventa. Come in fondo ho sempre vissuto io: fuori dalle conventicole e dagli ambienti, dentro le piazze e tra la gente di tutti i giorni. Col passare degli anni sempre più convintamente.

Sto ascoltando Fauré
Nel 1990, per il settimo centenario dello Studium universitarium maceratensis, si convenne di inaugurare l’anno accademico con una prestigiosa esecuzione musicale: il Requiem di Mozart, diretto da Kaziemierz Morski presso il Teatro “Lauro Rossi”. I meno provveduti in termini musicali, accademici e non, trovarono facile terreno nella battuta più scontata: “si inaugura con una messa da morto”. Peccato (per loro) che il Requiem di Mozart è tutto meno che una messa da morto. È invece, piuttosto, uno dei punti più alti di un repertorio compositivo sterminatamente altissimo. È inoltre l’ultima composizione di Mozart, lasciata incompiuta (per il sopravvenire della morte?).
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È uno slancio ad un altrove, un ponte di collegamento, un sasso lanciato verso l’azzurro. E musicalmente una sintesi esteticamente formidabile, piena di rimandi non solo religiosi. Anche l’incompiutezza rientra in questa cifra stilistica (forse), se è vero – come scrive Niemetscheck – che Mozart «prima che si sedesse al tavolo il lavoro era già compiuto nella sua mente». E dunque la grande energia (non forza! La forza, anzi, si oppone prospetticamente all’energia, la forza teme l’energia, la reprime, se può la sopprime), la grande energia che si sprigiona dal maestoso Requiem di Mozart è una volta di più un sigillo aperto ad altre infinite potenzialità. Non l’avrebbe potuto terminare di scrivere, il velocissimo Mozart che tutte le composizioni concepiva e riteneva a mente, prima di sedersi a scriverle? Forse, ripeto e penso, ha voluto lasciare quella sospensione come rilancio ad altro, come ponte nel ponte…
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Dunque, quell’inaugurazione del settimo centenario non fu una messa da morto. Nel ripensare a quel giorno, rivedo il mio grande e carissimo amico Kaziemierz Morski trasformato in gigante sul palcoscenico del “Rossi”, esile e precisissimo nella direzione, con l’occhio azzurro che incatena e uccide, almeno quanto magistrale nel tocco pianistico durante le sue indimenticabili interpretazioni di Chopin (sulla scia di Lipatti o, in parte, di Ashkenazy; di certo non del tecnicissimo e asettico Pollini): sono ferite – quelle della bellezza vissuta da vicino in quegli anni, anche grazie a Claudia Colombati – che segnano e non guariscono più, impedendo di godere di ciò che se ne allontana. Una fortuna e una tragedia, in un tempo pieno di forza e deprivato di energia come il nostro.
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Ma io stamattina sto ascoltando Fauré, il suo Requiem. Così novecentesco, nel suo richiamo alla classicità (e pensare che, nella prima stesura, la composizione non prevedeva la presenza dei violini). E anche questo tutto è meno che una messa da morto. Se nel Requiem di Mozart appare la vibrante energia, qui c’è un dolce ricadere nella fine come in un grembo: Fauré mi ricorda il digradare delle nostre colline picene verso il mare, un mare d’erba verde che si fa tutt’uno con le onde azzurre dell’Adriatico. Così mi pare che debba essere la fine della vita terrena, un avvicendamento naturale, materno, verso l’amnios. E anche Fauré – che certo non era piceno e nemmeno italiano – la pensa così, quando a proposito del suo Requiem scrive: “Si è detto che quest’opera non esprime il terrore della morte. Qualcuno l’ha chiamata una berceuse funebre. Eppure è così che io sento la morte: come una lieta liberazione, un’aspirazione alla felicità dell’aldilà e non un doloroso trapasso».
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L’impasto sonoro di questo Requiem è stupendo: alle accensioni liriche subentrano sonorità albali e delicatissime che si distendono e si ampliano amalgamandosi alle sottolineature corali delle voci, anch’esse equamente distribuite tra i picchi organistici e le piane evoluzioni della tessitura.
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Come assomiglia a me questo Requiem, mi dico. Come bene si associa a questa giornata di caldo sole quasi novembrino e guizza nelle beghe del giorno presente e poi se ne distacca lieve riportandomi nella reverie (ma senza esagerare), tra i volti mai sfollati dalla memoria, ancora vivi in me, e luminosamente.
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Non sono soggetto alla malinconia, non ho lutti da rielaborare. Mi so incamminato nella ruota del tempo che non si arresta, ed è bene così, sia per me che per tutti. Ad esempio, non tornerei mai indietro: per me, dentro il presente c’è tutto il tempo, ogni attimo lo significa in pienezza.
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Una volta venne a casa un dimostratore di aspirapolveri per materassi: mi dimostrò – con la sua prova – che anche il materasso apparentemente più deterso contiene in realtà frammenti di pelle morta da chissà quanti anni. Ci scrissi pure una poesia:
*
Dal materasso fuoriescono polveri
biancastre, maleodoranti. È pelle morta,
assicura con fierezza il dimostratore.
Mi chiedo quante generazioni sotto di me,
quante molecole un giorno vive ristagnano
ammucchiate nelle trame della stoffa
(da I destini partecipati, La Vita Felice, Milano, 2013)
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È lo stesso fluire degli anni che si accumula e si tramanda attraverso altre cellule, come le colline che digradano in mare, come il sasso lanciato verso l’azzurro e lasciato incompiuto, forse frammentato lassù tra l’aria e le nubi. È l’essere che promana dall’esserci, il bimbo tranquillo e svezzato in braccio a sua madre (Sal 131), l’energia della musica.
Macerata, 28 ottobre 2021

LETTERE IN USCITA – Caro Franco Loi

Caro Franco,
due notti fa ti ho sognato. Parlavamo del più e del meno durante la pausa di un convegno, non saprei dire dove e quale né quando. Si intuiva che si trattasse di un convegno irreale, sebbene in presenza. “In presenza”: quanto ci abbiamo creduto, noi, nella presenza… Nel corpo, nella concretezza della vita, nel respiro delle piazze e dei borghi… Oggi sembra un miraggio riconquistato miracolosamente, mentre dovrebbe essere la nostra naturalità.
Una volta che eri venuto a Macerata, ospite da me per una tua lettura, il mattino dopo – prima di riaccompagnarti al treno – ci eravamo dilettati a toccare le pietre del centro storico. Anche io lo facevo, ovunque andassi: annullavo, o così ero convinto di fare, i secoli per rimettermi “in presenza” con chi forse in quello stesso punto aveva poggiato una mano per riposarsi o baciare la fidanzata con enfasi o salutare per l’ultima volta un ivi residente venuto a mancare: mi illudevo, pur conscio che non fosse così, che il contatto casuale rompesse il cerchio oscuro delle distanze e permettesse all’io di diventare un tu. Tu invece in quelle pietre a faccia vista toccavi il presente, le pulsazioni della nostra gente, il nostro humus che ti piaceva tanto.
Eri innamorato degli uomini e della vita semplice, Franco. Ti piacevano le persone, adoravi parlarci, dedicare il tuo tempo a storie comuni, a battute felici, a modi di dire, proverbi, gerghi. La tua poesia era intessuta di quotidianità; me le ricordo da prima che le pubblicassi, le Voci d’osteria che raccontavi, il grande Liber della tua lunga vita, e quell’angel che conservo nel cantuccio più privato e segreto come uno dei libri più belli che mi sono capitati tra le mani; il grande respiro che tutti ti riconoscono, il saper guardare “più in là” (Noventa) nasceva proprio da quella miracolosa piccolezza, da quei nascondimenti operosi, da quel privilegiare i semplici, lontano, il tanto che è sufficiente per salvarsene, dagli ambienti letterari.
Ricordo la volta che ci conoscemmo, ero poco più che ventenne. Al termine di un qualcosa che c’era stato all’Università e dove eri venuto come ospite (io curavo un po’ di ufficio stampa), durante il pranzo ti scusasti per non poter star seduto a tavola con noi studenti, ma promettesti di rifarti la sera a cena. E dopo cena – poiché legammo subito in maniera speciale – per accompagnarti all’albergo passammo in piazza Libertà: deserta, come era sempre negli anni ’80, e semibuia. E lì tu, in mezzo agli altri amici, mi abbracciasti forte dicendomi “Caro, caro, mi pare di conoscerti da tutta la vita!”. Io ero un po’ imbarazzato, non me l’aspettavo. Tu invece eri come il mio amico pittore Wladimiro Tulli: lui non aveva paura dei colori, tu non avevi paura dei sentimenti. Io ero ancora allo stretto con entrambi.

Il tempo ci ha permesso di familiarizzare: ho conosciuto bene tua moglie e incontrato un paio di volte i tuoi figli; Silvana era una donna eccezionale, di un’intelligenza e di una vivacità rare. Era stupendo vivervi contemporaneamente, c’era un legame che andava oltre, che faceva stare bene a guardarvi, a sentirvi bisticciare sulle sorti del gatto o sul da farsi di lì a breve; minime digressioni, perché eravate davvero una cosa sola che sollevava l’umore. Le volte che si è stati insieme – a pranzo a Milano o passeggiando sui lungomari adriatici (a Pesaro da Gianni D’Elia ma poi anche a Cattolica, dopo che per tante altre estati eravate andati in Salento) – sempre preferivo chiacchierare con lei. A te lasciavo in consegna i ragazzi che negli anni si erano cominciati a radunare intorno a me: chi meglio di te avrebbe potuto dar loro così tanto in così poco tempo? E io, nel frattempo, mi godevo l’aria marina e i ricordi di Silvana, ci fumavamo di nascosto da te una bella sigaretta e ridevamo a crepapelle, perché sia io che lei – come sapevi bene – avevamo sempre la battuta pronta. Poi, alla fine dell’incontro, quando i ragazzi trasognati e saziati entravano in una sorta di delicata consapevolezza, c’era sempre un po’ di tempo per noi due: uno scambio di sguardi, una serie di intenzioni leggere e forti, di consolazioni profonde, di incoraggiamenti taciti ma proficui, poche parole tue importanti e imperdibili. Con cui fare i conti, o a cui attingere, ancora oggi, a distanza di anni.
Una notte – dopo una delle tue letture, mentre ti riportavo in albergo – mi tenesti in macchina praticamente fino all’alba, per leggermi i passi salienti del tuo Carlos Castaneda, di cui ti eri appassionato. Alcune cose le sentivo prossime ai miei punti fermi, ma tante altre mi sfuggivano: troppo sciamano, Castaneda, per i miei gusti. Sicché, sopravvivendo al sonno incombente in forza dell’entusiasmo che manifestavi e che meritava comunque attenzione e rispetto, ti proposi invece la lettura dei Racconti di un pellegrino russo. Con sorpresa, mi rivelasti che già altri te li avevano consigliati, e ti ripromettesti di leggerli prima possibile (forse te li spedii per posta la settimana successiva, ora non ricordo bene). Eri un divoratore di libri, ma non alla maniera degli eruditi o dei neofiti: per te si trattava di incontri in carne ed ossa, anche se erano pagine. Ci ritrovavi dentro la tua storia ed anche la tua scrittura. Coglievi con freschezza e sapienza alcuni particolari che agli altri sfuggivano totalmente. E nelle nostre telefonate chilometriche, tra gli aggiornamenti sui reciproci stati di salute e quelli sulle attività degli amici che puntualmente mi incaricavi di salutare, mi confidavi quelle tue fulminazioni ulteriori suggerendomi i titoli da non perdere assolutamente.
Mi piaceva la tua umanità, Franco. Mi avevi conquistato con la tua semplicità, col tuo slancio leale. Ma anche con il tuo sguardo che sapeva rimanere fisso (senza che le pupille si muovessero) e mi pioveva dentro leggendomi. Lo facevi anche con gli altri: di moltissimi di quelli che ti presentai riuscisti a cogliere da subito, con assoluta precisione, gli intenti, le doppiezze, le povertà, le ricchezze sincere, gli affetti. In questo (anche in questo) eri speciale.
Nel 1996, quando avevo (già allora…) deciso di non pubblicare più libri di poesia, ricordo la tua reprimenda durissima affinché non sotterrassi colpevolmente il talento. Poi, quasi costringendomi a farti leggere le bozze di quel librino che avevo pronto ma tenevo fermo, pronunciasti la frase fatidica: “la prefazione te la faccio io. Lo mandi in stampa subito”. E io mi fidai, tant’è che – con altrettante decisioni successive di non pubblicare più – sono ancora qui. E ogni volta che dubito, mi ti vedo davanti. Più o meno in quel periodo, dirigesti a casa mia anche l’amico Nicola Bultrini, venuto da te a conoscerti per stima e richiesta di consigli. Gli dicesti che a Macerata c’ero io e che, per quanto lui vivesse a Roma, era pur sempre di Civitanova, cioè un marchigiano: perché tu, Franco, nella linea marchigiana ci credevi, ti convinceva. In effetti, le Marche hanno prodotto una notevole quantità di ottimi libri di poesia, nel Secondo Novecento e ancora oggi: penso a nomi come Umberto Piersanti, Gianni D’Elia, Eugenio De Signoribus, Francesco Scarabicchi, e prima ancora Paolo Volponi, il nostro Remo Pagnanelli; e ancora Guido Garufi, Leonardo Mancino, Germana Duca, Plinio Acquabona (dimenticatissimo e ingiustamente), fino a noi della nuova generazione (i nati negli anni ‘60) e quindi ai giovani e giovanissimi, molti dei quali ho tenuto – per così dire – “a battesimo” editoriale. Una terra ricchissima di esperienze e di emergenze.
Tu sei sempre stato aperto al nuovo, quanto contemporaneamente radicato nel fiume della tradizione: diffidente verso la Neoavanguardia, Dante era il tuo primo motore poetico, la folgorazione principale che originava il tuo sentire e ti permetteva di cogliere l’attendibilità del dire di ognuno. Poi una volta, a “ParcoPoesia” (festival curato dall’amica Isabella Leardini a Riccione, credo si trattasse dell’edizione del 2004), avvilito mi dicesti che “Il popolo ha tradito, ormai non c’è più niente da fare”. Tentai un’opposizione, ritenevo che non fosse così, che nonostante l’imbambolamento generale vi fossero margini di speranza per guarire la nostra generazione da certe fissità, da certi ammorbamenti e imbarbarimenti intellettuali e non solo. Con le parole di uno splendido volumone di Giuseppe Montesano uscito più di dieci anni dopo (ma conforta ogni volta scoprire che non si è soli a pensarla così), ribattevo che “Le opere di scrittori e musicisti e filosofi, quando raggiungono l’incandescenza sensuale e conoscitiva che hanno nei Maestri, sono una via concreta di fuga dal pensare e sentire da ipnotizzati: svelano come la menzogna delle parole imprigiona le nostre vite, ma mostrano anche come le parole in rivolta possono scioglierci dalla rete di una realtà spacciata come l’unica possibile da ipnotizzatori ipocriti e ipnotizzati consenzienti” (G. Montesano, Lettori selvaggi, Giunti, 2016).
Mi sa però che avesti ragione tu pure quella volta. Perché i consenzienti difficilmente acconsentono a dissentire, a rompere il proprio specchio di tranquillizzanti ed anestetiche banalità. Quante volte ci penso, quante volte ti penso…
Caro Franco, manchi da un anno ormai. Te ne sei andato in punta di piedi, nel sonno. Nella nostra ultima telefonata – sempre cordiale nonostante il dolore grande della perdita recente di Silvana, e sempre cara nella tua richiesta di venirti a trovare (cosa che non sono riuscito a fare, perché anche i miei vent’anni ormai sono diventati molti di più) – “mi raccomando, caro, non sotterrare la penna!”, mi hai detto ancora. Come se non mi ricordassi più di quella volta là dietro; e chi ti può dimenticare, maestro che non amavi essere chiamato maestro ma solo compagno di strada un po’ più grande, semmai fratello, senz’altro amico?
Negli ultimi anni soffrivi della perdita progressiva della vista, alla fine eri praticamente cieco, così mi dicesti quell’ultima volta che ci siamo sentiti. Non potevi più leggere, non potevi più scrivere, ed era per te una limitazione feroce. Ma continuavi ad andare ovunque ti chiamassero, perché l’argomentare era ancora vivace, e più ancora la luce del sentire, come la memoria – che grande regalo avere la memoria perfetta! – che ti consentiva di dire a mente le tue poesie più emblematiche. Così gli amici che ti incontravano ora a Bologna, ora altrove, sempre mi riportavano i tuoi saluti o portavano i miei a te; perché quando te ne sei andato senza avvisare nessuno, io non avevo ancora perso la speranza di riuscire a rivederti, a godere della tua presenza per almeno un’ultima volta. Lo stesso dispiacere ce lo siamo comunicati senza troppe parole anche con Giuseppe Rosato e Giovanni Tesio: incontri e sodalizi che permettesti proprio tu, a Colli del Tronto tanti anni prima, quando ci avevi coinvolti – con l’altro amico Luigi Manzi, che da troppo tempo non sento – nell’esperienza del premio che là si teneva e di cui eri presidente. Che ricordi felici, quanta bella e sana ingenuità!
Caro indimenticabile Franco, mi mancherà sempre il tuo abbraccio buono, il tuo conforto sincero, la tua totale libertà: di essere quello che sei sempre stato – dall’epoca militante nel PCI alla scoperta di Dio –, di chiamare le cose col loro nome, e di chiedere scusa quando ti accorgevi di avere sbagliato. Sei stato un intellettuale vero proprio per questo, tutti dovrebbero tenerti a modello. Sei stato soprattutto un uomo, prima che un grande poeta.
Pensa che le nostre scritture non si assomigliano affatto: mi sento “loiano” soltanto nel tuo modo di sentire, nel tuo cercare di comprendere, nella necessità di semplificarmi per rendermi diafano alla voce. Ma per il resto… tu hai avuto, nei tuoi versi, l’energia franca e solida del grande fiume Po, la distesa sterminata delle pianure, e alle spalle il mare Tirreno tra Genova e la Sardegna. Io sono un uomo di collina: il mio è un mare d’erba, un moto ondoso di terra. Stiamo arroccati sul pennone dei borghi, il nostro navigare è sognante, è piuttosto una reverie. Eppure le nostre storie si sono capite tra loro, le nostre parole hanno dialogato a lungo. È questo, secondo me, il più grande mistero della poesia (e della vita).

“In una sorta di poesia in prosa”. Le filigrane di Guido Garufi
All’uscita del suo più recente libro di versi, Fratelli, alcune giovani voci della critica letteraria italiana storsero il naso: la scrittura di Garufi – dicevano – è troppo novecentesca, quasi che l’appartenenza anche anagrafica al secolo scorso suonasse automaticamente come passatista, quando non addirittura sorpassata.
Non è così, a nostro modesto modo di guardare. Il “bell’italiano” dovrebbe (dovrà, prima o poi) tornare in auge, come si conviene a ciò che merita nominazione ed attenzione.
Sappiamo tutti, mentre evitiamo di dircelo a chiare note, quanto le nostre Lettere subiscano ai nostri giorni la stretta dei minimalismi da un lato e – dall’altro – lo sfacelo delle meno governabili sciatterie. Che non tradiscono soltanto la scarsa frequentazione della biblioteca, quanto – e forse drammaticamente di più – la trasandatezza di un modus orecchiabile più o meno accattivante, più o meno seduttivo, sicuramente di immediata presa su un pubblico che non è più quello della poesia in senso stretto e felicemente elitario, bensì quello più ampio e troppo spesso occasionale dei social e/o delle performance.
Tommaso Landolfi sarebbe inorridito. E nonostante il suo giocare con le parole, la sua ricerca estetizzante e quasi parossistica (io peraltro lo adoro), il nostro presente l’avrebbe senz’altro – e a ragione – risospinto ancora più in là (Noventa) del contemporaneo poetically correct.
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Due giorni fa ho ricevuto via mail l’invito ad aderire ad un quotidiano che si chiama Slow news: articoli lunghi, di approfondimento e riflessione, senza nessuna concessione al sensazionalismo o alle notizie dell’ultimo minuto. Articoli scritti con grande cura della lingua usata e del bello stile, come si diceva una volta.
Perdonatemi la digressione, che tuttavia è solo apparentemente sganciata dal libro di Guido di cui dobbiamo parlare oggi, Filigrane. Canzoniere apocrifo (affinità elettive, 2020). Anche il suo è uno slow book, un libro di illuminazioni mosse che tuttavia ha un suo ritmo interno lento, progrediente e non circolare, nonostante l’apparente ritorno dei temi da un capitolo all’altro; un tentativo di scavare la fossa alla propria esperienza esistenziale, alle morte stagioni, per aprire il cerchio sulla presente e viva. Ed anche sul suon di lei, perché lo stile e il lessico non possono ritenersi accessori incidentali; bensì parte stessa della narrazione.
In questa inquadratura pasoliniana (ossia dai tempi lunghi, come quando ad esempio in Medea il regista poeta indugiava oltre i tempi cinematografici sugli occhi della Callas); in questa progressione lenta ma inesorabile, Garufi compie un piccolo prodigio: riesco a scrivere un romanzo che romanzo non è.
Si tratta piuttosto e davvero di un canzoniere apocrifo, quasi di un libro in versi che ha però individuato una sua cifra distesa, narrativa in quanto ricognitiva (una sorta di poesia in prosa, la definisce l’autore nel capitolo dedicato alla palude, cioè a quella stagnazione imposta da certe anfibie fissità solo apparentemente dialogiche, che hanno un’origine arcaica e risultano per certi versi fondative della nostra cultura maceratese). Guido – nella sua perlustrazione ampia e soggettiva (ma non esclusiva, anzi: includente) – rilegge il suo tempo oltre le diacronie degli eventi, raggrumando e conteporaneamente sviscerando. Un approccio che si può dire scientifico, almeno quanto sentimentale ne è la partecipazione.
E un approccio linguisticamente esatto: la perizia calligrafica di Guido, come si diceva prima, non è mai un atto voluto: è invece un modo d’essere, il suo modo d’essere e di scrivere; che indica anzitutto la provenienza, i maestri, l’educazione, la formazione insomma. E indica anche l’attenzione per la parola, chiamata appunto a ri-conoscere, a formulare l’anamnesi, a orientare l’atto creativo nella giusta direzione: che è quella, intellettualmente onestissima, della rielaborazione critica e poetica della sua (e della nostra) vita intera:
<Sì, lo ammetto, molte volte ho sperato che il giorno si facesse notte e che il sole spianasse totalmente la campagna, e ancora che la veglia e le albe furtive, gradualmente, mostrassero un volto più sereno, e il vento mano a mano declinasse in melodia la propria nota oscura. Avverto allora in modo più lucente la mia infanzia, tutta elementare, tutta natura, fatta di canto e di silenzio, di un silenzio essenziale come l’erba, un’erba nuda e docile nella sua estrema bellezza e notturna, nella sua mente e nel suo silenzio così umano. E il mare, allora, dopo una giornata faticosa, sudata, questo mio mare Adriatico, verde, intenso, avvicinandosi agli argini, lambendo gli ombrelloni dopo la tempesta come si legge nella montaliana “Arsenio”, sembra intrecciarsi a citazioni dannunziane, dove l’elegia marina è “verde come i pascoli dei monti”, nella luce tarda della sera, nei frammenti leggeri di un polline solitario di purezza, tutti segni della nostra stagione, avvistando sul celeste dell’acqua il movimento dei cutter all’orizzonte, in quella bellissima stagione che è l’infanzia, nella mia vecchia Fontespina, piccolissima frazione ai confini di Porto Civitanova, ai miei casotti, all’albero del fico accanto alla Lampara, con quegli amici, con quelle voci, con quelle immagini… ed è questo vento del ricordo che mi riporta a quel corpo di velluto che è la sabbia che mostra ancora le stelle marine e gli ippocampi. Un piccolo mondo che da arido e deserto fiorisce in queste immagini, si muove e dentro di noi vive mentre qui scriviamo alla presenza di chi non è più accanto a noi, quasi come un alito, una carezza.> (pag. 61)
In Guido, Poesia è personaggio della trama al pari degli altri, figura dialogata che offre segnali al viaggio iniziatico intrapreso; in essa appaiono semmai, in filigrana, il suo amore per la lirica inglese, sempre elegante e sorvegliata. In essa si lascia riconoscere la medesima montaliana capacità di distanziarsi dalle cose non per tenersene a bada, ma giusto quel che sufficit a poterne dire senza sovraccaricarle di qualsivoglia enfasi o retorica. In essa aleggiano anche – ça va sans dire – alcuni suoi numi tutelari come Mario Luzi e Vittorio Sereni, non meno dell’amico e sodale di sempre Remo Pagnanelli.
Guido sa di usare un medium – la scrittura larga della prosa, ma mediante il rigore esaustivo della poesia, che in questo frangente specifico ha pure una sua valenza etica non indifferente – e tuttavia non se ne serve, bensì attraverso di esso serve il magmatico mare dei volti e dei ricordi della vita per tentarne una ricognizione. Come Gadda, ci conduce scientemente per mano nella sua narrazione per niente romanzata:
«io chiedo al romanzo che ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto». (Carlo Emilio Gadda, I viaggi, la morte – 1958)
Le ragioni o le irragioni dei fatti: sono queste, le filigrane. Un viaggio di presenze e di assenze, di volti che c’erano e che tuttavia ritornano in una compresenza di tempi diversi; uno spaesamento che è però finalizzato ad una risalita possibile verso la luce. Una grande e commovente reverie, condotta col garbo e l’attenzione che si riservano alle cose vere.

Il gruista di Piazza Vittorio Veneto
(Macerata, 26 ottobre 2021)
Osservo i cavi della gru muoversi nel vento come un’altalena. Al posto del bambino sorridente del nostro comune immaginario, penzola un manufatto di pietra. Da sotto le logge di Piazza Vittorio Veneto la sommità della gru non si vede, le arcate la coprono. La pietra ondeggia pericolosamente di qua e di là, quasi a minacciare la Biblioteca comunale là di fronte. Ma no, è solo un breve ondulare, un sussulto blando. Piuttosto mi incatena nel desiderio di stare al posto della pietra, ed ondeggiare sulla piazza, poi più su più su, fino a toccare la vetta della gru.
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Quando l’hanno montata, i vecchi stavano in piazza come a un ritrovo, con gli occhi fissi di fronte a tanta meraviglia: cento metri di ferro che si ergevano, sollevati da un mezzo meccanico ancora più alto che si perdeva nell’azzurro. Come dev’essere il mondo da lassù? Io passando ho pensato questo, mentre un brivido mi gelava vedendo gli operai arrampicarsi con disinvoltura tra i riquadri gialli; i vecchi no. Loro studiavano le fasi del lavoro, si premuravano che il basamento tenesse, mentre le macchine preposte ronzavano furibonde e per una volta non recava loro fastidio.*Uno spettacolo inedito, un’attrazione circense ultraspeciale e per di più gratuita, meglio della banda d’estate dopo cena. Meglio di un gelato con amici e parenti. Una giornata serena, di bell’autunno, ma come sarebbe e sarà domani se calerà la nebbia? Che ne sarà del gruista là in alto, e di quel braccio gigantesco orizzontale che segna a dito le case e l’orizzonte?
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Seduto al mio bar sotto le logge mi sovviene l’omonima canzone di Jannacci, “Il gruista”, la sua vita stralunata più in cielo che per terra, fino al giorno della caduta insospettata. Io da lassù non cadrei: mi ci dovrebbero issare e poi vivrei lì fino alla fine, incapace di scendere come che sia. Come un monaco nella sua celletta claustrale, ma senza pareti intorno che non siano d’aria e di cielo. *Una volta avevo stretto amicizia con un operaio che lavorava nel cestello per riparare cornicioni e davanzali. Gli avevo strappato un viaggio nel cestello per poter fare qualche foto. Ma da casa tua – diceva – non sei più in alto ancora del cestello? Sì – ribadivo – ma nel cestello è un’altra cosa, il mondo è tutt’intorno senza schermi. Posso salire oltre il mio tetto e voltarmi di qua verso la piazza, dove le mura di casa mi impediscono di guardare. È un po’ come volare in sicurezza, avendo comunque i piedi poggiati su un pavimento; non devo salire gradini cedendo alle vertigini: entro a bordo da terra e poi fa tutto il camion coi suoi comandi. E lui aveva ceduto, aveva accettato.
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All’atto di salire, non credo di aver resistito oltre i tre metri di altezza: il senso del vuoto, il tremore inconsulto delle gambe, il timor panico (come lo chiamava mia madre), e subito “presto presto, riportatemi giù: credevo di farcela ma per me è impossibile!”, dovetti riassaporare i sampietrini, gli amati limiti della tranquillità umana. Un aereo non mi fa quest’effetto, al contrario: il moto di accelerazione nel decollo mi mette allegria. Me nell’aereo si è come in un’utero allungato, confortevole. La libertà – nonostante le ringhierine del cestello – è un bene pericolosissimo da gestire, un’occlusione provocata dall’aperto, uno spaesamento.
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Dal mio tavolo consueto sotto le logge osservo le corde metalliche della gru oscillare… e penso al gruista, lassù in alto, che manovra la sua bambola di ferro e parla forse agli angeli di passaggio tra le nubi. Cento metri di gru, è lavoro, è necessità. Ma forse è anche sogno, evasione, distacco dalle formiche quaggiù che si arrabattano inquiete. E migrano tra vicoli e crocicchi, assuefatte al loro ritmo privato. O forse è lontananza che si inerpica su per la gru, filo tenace e feroce di solitudine che evoca una presenza, un ritorno; o infine un misterioso iniziatico innamoramento. Di chi? Di cosa? Solo lassù lo si viene a sapere.

Il ritorno di San Giovanni
Il colore dell’inverno, già prima che arrivi, è nota di estrema malinconia: già si immaginano le giornate trascorse al chiuso di casa, lo svuotamento progressivo degli amati tavolini al bar, il freddo e l’umidità che squassano le ossa, il cielo grigio, la pioggia. Poi, come per incanto, quando queste manifestazioni si danno realmente, nasce dentro un piccolo benessere indecifrabile: una sensazione di bella calma, di naturalità, una riappropriazione della propria intimità. Non si spiega in sé: perché i fenomeni sopra citati avvengono realmente, e poi con una rapidità che trasforma il clima in un battibaleno, facendo precipitare di colpo le colonnine con grande disagio generale. Eppure, gli effetti sulla psiche – per lo meno nel sottoscritto – risultano benefici. E così, come nella canzone, “Solo me ne vo per la città”: sbirciando le cose nuove, apprezzando il recupero delle antiche, ricordando, e qua e là anche trasalendo.
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Il crollo dell’estate assesta un colpo anche agli incontinenti delle notti di movida, e sebbene la quotidianità dei più adulti diventi un fatto di “orinaria” amministrazione, l’auspicio è che il freddo sconsigli evoluzioni spregiudicate su e giù per i vicoli. Generalmente, i fenomeni invernali delle notti di movida si riducono allo schiamazzo – con sempre, tuttavia, qualche bevitore necessitante spurghi.
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La mia cagnolina Tea soffre un po’, durante l’inverno, proprio perché le tracce di pipì si fanno esigue: e mentre lungo l’estate è un gran daffare di annusamenti, d’inverno la caccia alle amate tracce le si fa più complessa. È vero che esiste sempre un gruppetto di suoi sodali i cui umani non esitano a permettere sui tappetini dei negozi le “auree vestigia”, e talvolta qualche fumante pietanza in mezzo alla strada, però anche d’estate il loro numero si è ridotto ampiamente; i cafoni, cioè, sono in ampio calo. Senz’altro il loro numero è largamente inferiore a quello dei barbari notturni del giovedì. Minore il numero ed anche la responsabilità degli affettuosi animaletti: non bevono alcolici, se vomitano se lo rimangiano, sniffano soltanto escrementi e non si fanno nemmeno le canne. Si dirà che non hanno un gusto proprio sopraffino, e si può concedere; ma non scambierei le loro abitudini con quelle debosciate e ululanti di certi trogloditi.
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Anche ai Giardini Diaz, per dire, durante l’estate ho trovato di tutto: bottigliette di plastica, sacchetti di patatine, tovagliolini, pacchetti vuoti di sigarette, cicche, bicchieri di plastica, cannucce, fazzolettini usati, lattine di birra… no: cacche di cani no. E faccio molta fatica a credere che sia loro responsabilità la disseminazione a tappeto della plastica. Sicché, mi piacerebbe tanto che le giuste ed avvelenate polemiche di qualche tempo fa contro i proprietari maleducati di cani si rivolgessero con lo stesso zelo, con la medesima indignazione, verso gli altri incivili (che purtroppo sono la maggioranza).*La mia lagottina adora il verde, i boschi, l’acqua. La passeggiata a Fonte Scodella si rivela ogni volta fantastica ai suoi occhi: vialetti e scorci boschivi, in cui adora lanciarsi, richiamano alla mia mente i begli alberi di Corot che si aprono nell’infinito, mentre lei saluta scondinzolando festosa i suoi amici come Scott, il Jack Russell che è forse il suo fidanzatino in pectore più probabile; oppure altre volte ci concediamo il lungo fiume nelle escursioni montane (il mare, come si sa, è vietato ai cani, specialmente d’estate: anche lì, batteri di ogni specie, pannolini vaganti, fogne che spurgano direttamente in acqua, ma i cani no. Meglio per i cani, si capisce).
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Tea, come dicevo, adora la campagna ma non disdegna affatto il centro storico, dove ha occasione di salutare i miei amici commercianti, alcuni avventori abituali, altri cagnolini ormai entrati nel suo habitat affettivo (come il vulcano Ugo, bulldog inglese un po’ mastricione). E mentre si gode il suo peregrinare, io ho modo di deliziarmi di quel che incrocio.
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Adesso, ad esempio, sta tornando San Giovanni. Stanno togliendo il velo e torna ai nostri occhi la splendida facciata, con le belle lesene marmoree, le grandi edicole laterali.È una visione fantastica, in cui la bellezza si imprime negli occhi e si impone senza necessità di didascalie, come invece sempre più spesso accade nell’arte del presente, in cui i veri artisti – viene da sospettare – sono proprio i recensori, grandi maestri di anfibologia e di dialettica “forlaniana” (dire tutto per non dire niente, toccare con mirabolanti suggestioni suggerenti l’universo intero riuscendo ad evitare l’apparizione del “re nudo” di anderseniana memoria: di queste vestigia improprie – e di queste circumnavigazioni didascaliche – è purtroppo piena la nostra quotidianità).*Ritorna invece San Giovanni, con le sue memorie recenti e le sue sollecitazioni autentiche storico-artistiche. Tornano nella sua facciata i maceratesi che, dopo la Messa e le fantasmagoriche omelie di Don Enea alle 11:30, compravano la pasta fresca e i pasticcini da Pompei e da Venanzetti. Torna il Barocco che arricchisce la chiesa con grande finezza sin dall’esterno, e poi all’interno: la spaziosissima ed unica navata centrale, gli altari laterali dedicati a Sant’Ignazio (fondatore dei Gesuiti) e San Francesco Saverio (il grande missionario che a noi richiama il maceratese e gesuita Matteo Ricci), i marmi policromi, i giochi di luce e gli ornamenti tipici dell’epoca. E poi il cupolone, la svettante lanterna, il campanile articolato in più livelli…
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Ci hanno detto che funzionerà come auditorium ma anche come cattedrale in attesa che ripristino la funzionalità del Duomo. Va bene qualunque soluzione, purché venga riaperta: e sigilli, una volta di più, il bisogno di ritrovare la nostra normalità migliore, dopo il terremoto e dopo la pandemia. E quant’è bello rivedere San Giovanni, imboccando Corso della Repubblica da Piazza Libertà! È come una meta, simboleggia un traguardo, suggerisce un’accoglienza.
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Sarebbe bello che ci si ispirasse alla grande arte di un tempo, sposandone non soltanto il nome ma anche la pazienza e l’umiltà degli artisti, il pudore nel fare, la solidità delle conoscenze, la qualità dei risultati. Sarebbe bellissimo imporsi un po’ di silenzio per favorire l’ascolto della bellezza più sincera e fare un passo indietro, anziché ammorbare la nostra quotidianità con vaniloqui anche figurativi tentando di legittimarli a suon di recensioni ed altre autoreferenzialità. Ma temo che, dietro la nostra siepe, non si nasconda più l’infinito leopardiano. E il nostro sia un tempo di transizione feroce.
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Per fortuna, allora, transeat gloria mundi. E Tea che tira al guinzaglio, stanca delle mie peregrinazioni intellettuali, suggerisce di riprendere il cammino ritrovando la strada di casa. Credo, tutto sommato, che abbia ragione lei.


BUONE DOMENICHE
Alle 8 di stamattina, domenica, il centro storico è totalmente deserto. Un set di Cinecittà dismesso, ingoiato dal freddo e dalla nebbia. Quattro reperti dell’era industriale dotati di ruote gommate giacciono nel ventre basso di Piazza Libertà ricoperti di brina. Si intuisce che la calata della nebbia, quasi al pari della lava vesuviana, abbia velato il borgo preservandone gli abitanti nella posizione in cui si sono addormentati alla fine dei bagordi del sabato. Ci sono soltanto due bar aperti: il Centrale e Romcaffè. Il primo ha l’agio di poter fruire delle logge municipali che ne preservano tavoli e sedie dall’umidità. Il secondo cerca di salvare come può i tre tavolinetti situati subito fuori gli ingressi con ombrelloni di tela. Ad essi arriva, se non altro idealmente, il tepore delle luci soffuse dell’interno e l’odore buono della pasticceria appena sfornata.
La rotta è quella di tutti gli altri giorni: salita per la Piaggia dell’Università, con Tea che annusa le tracce della movida, cattura qualche bicchiere di plastica ancora gocciante, tenterebbe di assaggiare i postumi di qualche sbornia violenta se non venisse di colpo sottratta alla curiosità dalla stretta poco potente ma senz’altro decisa del sottoscritto.
L’attraversamento del mare di nebbia evoca il lungo Ticino delle mie memorie pavesi; come avesse piovuto chissà quanto, i muri della Prefettura e del Teatro Lauro Rossi sono intrisi di acqua, mutano colore, fanno pendant con il chiarore abbagliante. La prima voce ad apparire appartiene ad un’ombra che si palesa accostandosi: è l’amico Vittorio, abbiamo un sogno segreto comune che non tornerà, a forma di edera. Mi paga il primo caffè commentando l’omaggio che Draghi ha riservato a Ugo La Malfa nell’anniversario della morte di quest’ultimo. Il ricordo ci aiuta a non intristirci col presente. La seconda voce, invariabilmente, è quella di Francesco il tabaccaio. Davanti alla sua bottega si consuma un adulterio quotidiano ai miei danni, tra lui e Tea. Lei raspa sul marmo della Galleria Scipione per raggiungerlo prima che si possa; lui la chiama a voce alta, si infila i guanti protettivi per poterla accarezzare e scapigliare, come si conviene a un amante appassionato. Corrono insieme su e giù per il loggiato in barba a me che li guardo – e che nel profondo li ringrazio, perché posso concedermi così dieci minuti di relax su una delle due sedie di plastica bianca che Francesco ha posizionato davanti alla tabaccheria alla base delle colonne che incorniciano la Galleria, e presso le quali (come nei Caffè del Novecento o dal barbiere negli anni ’50) si fermano i clienti abituali scambiandosi battute, opinioni, confidenze. Quando per qualche giorno manca all’appuntamento qualcuno, la preoccupazione e la premura di tutti gli altri si rincorrono da sguardo a sguardo, finché uno prende un telefono e si sincera.
Di domenica è purtroppo chiuso il CaBar’et (non so mai come si scriva esattamente): Giorgio, il titolare, di domenica giustamente si riposa; ma a noi manca. A me, perlomeno, manca. Così la passeggiata prosegue: talvolta con l’ascensore raggiunge i Giardini Diaz (sconsigliatissimi con quest’umidità che squassa) e se l’uzzo è positivo sconfina verso Fonte Scodella, coi suoi boschi e sentieri che danno la sensazione gradevolissima di trovarsi da tutt’altra parte che in città. Ma oggi non si può: sì e no si vede chi arriva di fronte.
Oggi però c’è una new entry: si chiama Polo, è un delizioso cagnetto color crema di cui Tea si innamora a prima vista (lui non disdegna, peraltro: mi stupirei del contrario…). In una domenica così, tutto si può dire di Macerata, tranne che non c’è un cane…

Il giusto sguardo
Affetto da randagismo, non appena ebbi l’opportunità di avere una macchina tutta mia, avevo preso la buona abitudine di spingermi senza meta ovunque mi chiamasse il desiderio. A guidarmi non era mai – o quasi mai – l’occasione di una Mostra d’arte o la bellezza dei monumenti, bensì – invariabilmente – la gioia di riabbracciare vecchi amici, mettendomi ad amare dal di dentro i luoghi che visitavo. E così a Roma – in cui mi orizzontavo male, ma sufficientemente per raggiungere i punti del mio raccordo mentale, servendomi di treni e metropolitana – conoscevo ormai a menadito tutta la zona di San Lorenzo e quella di Valle Aurelia; mi muovevo briosamente dentro i vicoli di Trastevere, scivolando poi sul Lungotevere fin verso San Pietro; ma ciò che ancora e sempre di più mi seduceva e conquistava era il sentirmi un po’ romano anch’io. Se mi fermavo a dormire, alloggiavo a casa di Roberto, rincontrato dopo venti anni e, sino ad allora, dato per perso, mentre lo ritrovai e riscoprii come uno dei miei amici più cari ed affezionati, grazie ad una cena estiva di villeggianti. Era venuto a farmi una sorpresa, d’accordo con gli altri nostri amici di allora, in occasione del mio compleanno. Sono quelle cose che fanno piacere: galleggiavo con in corpo una fastidiosa sensazione di inutilità, girando nervosamente tra il computer e la cucina, quand’ecco apparirli tutti dietro la porta, che venivano a prelevarmi per condurmi in un ristorantino dell’entroterra in cui avevano organizzato una festa per me, con tanto d’orchestrina e karaoke. Avevamo cantato a squarciagola – come sempre si fa quando ci si costringe a soffocare una spina che si porta conficcata dentro e non se ne vuole andare. Un segreto che tuttavia mantengo ancora, oggi che non mi duole più.
Un’altra volta, avevo attraversato tutte le regioni del Nord: due giorni nel Piemonte reduce dall’alluvione; altri due giorni nella Genova mai vista prima del mio amico Massimo, conosciuto circa un anno prima ad un Raduno di collezionisti di dischi; e poi a Pavia, città dove aveva vissuto per una vita mio zio Giulio e dove credetti di capire il perché di quella permanenza, tanto che mi ci sarei trasferito senza problemi: città a misura d’uomo e tuttavia città grande, felicemente nebbiosa. E poi c’è il Ticino e il lungofiume, che comunque rompe le fissità del nido. Mi piace Pavia, anche se fanno anni che non ci vado.
Era bella la vita vissuta così, di paesaggio in paesaggio, di ricordo in ricordo (chi se lo può più permettere?); a me, tuttavia, piace anche la sedentarietà casalinga: sigarette a portata di mano, un buon caffè da sorseggiare e musica a buon volume. E in quelle rare occasioni in cui il Comune risparmiava sull’energia elettrica, aprendo i palazzi a uno scuro formidabile, il mio godimento era immergermi in quel buio appena scalfito dalle stelle, quando per le vie non passa più nessuno e tutt’al più si alza una risata di studenti di ritorno dalla discoteca o, più distante, arranca il camion della nettezza urbana. Eccomi allora, solitario vagabondo per i vicoli ormai disabitati del centro, fin dove gli spigoli coperti dalla parietaria si concedono al mare d’erba delle colline e in lontananza si può scorgere la sagoma del Conero a picco sul mare; sui bidoni se ne sta ingrifato qualche gatto meno randagio di me. Alle spalle, ho gli amati palazzi rinascimentali, miniature di quelli fiorentini ma di fattura analogamente aggraziata, rigorosamente a faccia vista, alternati da case basse e fughe di sguardo a destra e sinistra, là dove si originano e confondono tra loro viuzze ed erte, sampietrini e scalette. La mia città me la giro intera nel buio, lasciandola parlare in quel magnifico silenzio attraverso le distrazioni dell’ora, le lamentele dei cani; e da quando è morta mia madre mi sento città io stesso, angolo da visitare, tanto maceratese da essere contemporaneamente tutt’altro.
A un certo punto del mio percorso, presi la buona abitudine di andare a passeggio col mio vecchio amico Mario Buldorini, l’alimentarista con la passione per la pittura che i più ricordano con l’appellativo di “Ermete”, anche se poi Ermete era suo padre. Ottant’anni suonati, andatura traballante e un po’ curva, bastoncino nella destra, cappello in testa, occhiale a metà del naso. E però un’energia vitale insopprimibile, davvero poco maceratese: – Non lo capisci? Ti sembro pazzo? – e mi pareva, in effetti, un po’ strano che uno della sua età avesse tutta quell’approvazione per un’impennata di moto di un ragazzino. Ero andato a prenderlo a casa, come ogni mercoledì pomeriggio, verso le diciassette, per la passeggiata; il giro, sempre lo stesso: Via Crescimbeni fino in fondo, salita a destra per Via Tommaso Lauri, su su fino a Piazza Cesare Battisti e quindi Via Gramsci, che impatta – sul fondo – in un palazzo alto, che invariabilmente al tramonto offriva (ed offre) un taglio di luce tutto speciale; e lì Mario era felice: – Mi perdonerai se perdo il controllo, di fronte a questo spettacolo, ma io non sono un uomo di parole; vivo di immagini… da sempre; anche i rotocalchi di mia sorella li ho sempre ritagliati, perché mi affascinava l’idea di poterli far muovere, di studiare l’occupazione delle figure nello spazio… e questo taglio di luce… ma adesso taci e respira!… – e lì dovevo respirare, a pieni polmoni, ogni settimana: – Cosa dobbiamo respirare Mario, me lo spieghi? – avrei voluto dirgli ogni volta, ma non mi stava mica a sentire: era immerso nelle figure… la casa, il tramonto, le luci brune che invadevano i prospetti d’intorno, il pavè bluastro, l’aria…
Aveva ragione: non ho mai imparato tanto come dai suoi silenzi assorti, protesi verso un punto di fuga e di ricognizione all’orizzonte, con quel suo occhio arguto che lo fissava quasi fosse una preda da catturare e non, piuttosto, un miracolo di architetture e di natura da cui farsi catturare. C’era infinita sapienza, in quel suo guardare lesto e innocente: e nelle pause dilatate dei suoi incantamenti, avevo modo di captare la cronaca del passato; capire che ogni pietra eretta in città v’era stata posta con accortezza, badando ai venti e all’esposizione alla luce, guardando ora verso il monte, ora verso il mare, da finestre quasi sempre senza balconi, da cortili esplodenti verso l’azzurro, da intonaci serenanti senza mai essere assordanti. L’aria…- Sai che una volta siamo saliti in cima alla torre? – settanta metri è alta la torre della nostra città. E lui, anche dalle foto, vien fuori come un ragazzino gracile, a modo, di sicuro non ce lo fai che si arrampica sui muri incerti all’interno della torre: – Eravamo io, il farmacista Cappelletti e un altro che non ricordo… e poi, di lassù, aspettammo mezzogiorno, che la campana faceva vibrare tutto… dovunque guardavamo era cielo aperto, fino al mare! – con lui mi sentivo vecchio, anche se avevo cinquant’anni di meno: – Vieni al pensatoio, ti offro un supplì, così parliamo un altro po’… – il pensatoio era la cucina del suo negozio: salivi per una scaletta che portava in un bugigattolo bianco, pieno di odori e, sulla destra, un tavolinetto in noce zeppo di foglietti, librini e penne stilografiche. Tra un piatto in forno e l’altro, Mario sedeva a disegnare l’aria, e dopo i suoi supplì avevano per davvero un sapore diverso. Ma quel ragazzino in moto che impennava, io davvero non l’ho capito come aveva potuto sgranare gli occhi a quel modo e poi esclamare: – “Guarda… vedi come domina il mezzo? E’ fantastico! E io, purtroppo, sono nato troppo presto!”. Troppo presto, eppure era più avanti di me. Perché lui non aveva paura della vita, non era uno che segregava i sentimenti. E adesso, quando lo raggiungo al cimitero per salutarlo ancora, c’è sempre un po’ d’aria fresca intorno. È finito il buon odore dei supplì, non c’è più nemmeno il pensatoio; lì da più di vent’anni c’è una delle pizzerie migliori del centro storico, ma al tramonto il sole incornicia sempre la casa in fondo a Via Gramsci; e a me piace pensare che in un volo di piccione ci sia un po’ del suo sorriso incantato che torna.
