
bibliografia
Davoli: abbandonarsi alla luce di Dio – in “Avvenire”-Agorà, 26 giugno 2022

A proposito di Tenerissimo Amore
di Daniele Referza

Ci ha incuriosito fin da subito questo titolo, Tenerissimo amore. Come tutte le cose che si scorrono al volo non facendo caso, nasconde anch’esso qualcosa che la mente aveva intuito ma doveva indagare con maggiore attenzione.
Tenerissimo amore: un superlativo carico di senso affianco ad una parola evocativa, incompresa e compromessa, perlopiù rischiosa, da arditi .. come a dire: qui si parla di un certo amore, attenzione. Questo amore di cui si parla è quel tenerissimo amore, il quale verrebbe bene da pronunciare tutt’insieme, d’un fiato, tenerissimamore. Comunque, tenerissimo: perché? Non era sufficiente scrivere amore? Tenero amore? Non crediamo tutti che l’amore sia già cosa tenera? Abile il poeta e ingenui noi. Non ogni amore, infatti, è tenero; solo uno, forse (dato il superlativo) è tenerissimo, ossia il più tenero fra i teneri.
Tènero, in latino, custodisce alcune radici significative: del genere di tenuem e tendere, può indicare disteso e sottile al contempo; qualcosa che si tende, perché malleabile. Un amore che si tende, che non è rigido, che sa adattarsi. Un amor di altri, lontanissimo dall’amor proprio di cui la nostra società è pervasa. Teso, proteso, atteso. Sottile: leggero, tenue, direi invisibile – e proprio per questo infinitamente tendibile. Come l’aria, come la luce.
Già, la luce. La poesia di Filippo Davoli mette a tema proprio la luce. La luce che è Cristo, Cristo luce. La luce è la parola che più si ripete nel libro, non saprei contare le volte, e proprio per questo si erge legittimamente in questo caso a vero e proprio topos poetico.
Un bel giorno, sparite le ombre, dilatato
il tempo come nell’alba, mi parve
di scoprire – ma dentro – come una luce nuova
una stabile calma, una pace.
Collimava quell’aura col grande
silenzio di un azzurro spiegato.
E conobbi, ho capito, che fosse
quel volo segreto dell’anima
che al colmo dei crolli si libera
dall’ossessione del cuore.
In questo componimento troviamo molti degli strumenti utilizzati da Filippo Davoli per raffigurare l’inafferrabile: la luce, il silenzio, il volo, il cuore.
Su Giuseppe:
Sei un silenzio di carne che opera
senza tacere. Che parla coi fatti.
Sei la conchiglia vuota che risuona,
la cavità dove il respiro si fa voce.
E in quella sicurezza precaria
che ti fa dolce e forte, tenerissimo
nelle mani di un Altro che le tue
mani abbracciano e adorano,
io sento precipitarmi e mi conosco,
forse la prima volta.
In San Giuseppe c’è una luce riflessa, opaca. In lui avviene il miracolo della contraddizione assoluta, espressa dal poeta con sinestesie potenti (silenzio/carne, parla/fatti). La “precaria sicurezza” che è “dolce e forte” schiude l’ampiezza semantica di quel “tenerissimo” che ritorna in modo prorompente in questa scena emblematica.
E fosti madre, madre nella carne.
Nella casa annerita fu un respiro
ad un battito d’ala e d’infinito,
l’umile eterna gloria del tuo sì.
Sì, sia così, si faccia! e schiude il cielo
una carne di bimbo, la carezza
del Suo amore che impara dalla tua
calda mano di madre.
E resti, madre, tenera fanciulla
alla luce della Sua luce
luce anche tu.
Maria, madre del Creatore, “figlia del tuo figlio” (direbbe Dante) è la donna che nel grembo accoglie la luce; colei che, soggetta alle leggi della finitezza, raccoglie in sé l’infinito spandersi della luce. Una luce eterna, tenerissima, capace di stendersi fino ai confini dello spazio e del tempo, raggiungendo ogni carne, illuminando senza perdere nulla della sua lucentezza.
Credo, per quello che posso supporre, che questo canto alla Vergine abbia atteso fino a oggi per potersi sprigionare nei versi di Filippo Davoli; oggi può finalmente uscire fuori nella sua potenza quel poetare che, sotteso, risuonava tra i versi dei componimenti passati. La carne del poeta, smossa dall’incontro col risorto, va a dilatarsi sempre più, come fosse una rete sottile, fino a lasciar salire nell’aria l’anima liberata (“volo segreto dell’anima / che al colmo dei crolli si libera / dall’ossessione del cuore”).
Il cuore infatti, notoriamente sede dell’amore, non può certo dirsi l’organo più tenero o leggero dell’essere umano. Il cuore è spesso davvero colmo di ossessioni, rigidità, rancori, affanni, preoccupazioni, violenze. Il salmista scrive che “un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso” (Salmo 64). La nostra esistenza, in effetti, incontra così spesso amori tossici, violenti e disperati da fare fatica ad immaginarsi un altro amore. La realtà è che non sappiamo amare e che gli altri, spesso e volentieri, non sanno amarci. Tanto l’amore vive questa dilaniante dialettica fra l’ideale e il reale che noi perdiamo ogni giorno fiducia nella sua esistenza, accontentandoci del sogno – fuggendo in altri lidi con la fantasia e alienandoci – o abbracciando un bieco sarcasmo che ci spinge all’asfissia del cinismo e del pessimismo.
Per poter avvicinare questo tenerissimo amore, dunque, non sapremmo da dove cominciare. Il poeta, in questo caso, ci aiuta donandoci la sua più intima esperienza, nata non da qualche convinzione morale o dal seguito di tradizioni o dogmi, ma da un inaspettato incontro con una Persona viva:
Dopo la comunione Ti trovai
un giorno, la prima volta, in una croce
gigantesca, nascosta dietro un angolo.
Ma ero ancora piegato su di me.
Ne percepivo l’aura, consentivo
al mio cuore spaccato un po’ di tregua
nel Tuo silenzio immenso e colloquiale.
L’incontro con Cristo Risorto non è questione di vedere o sentire o toccare secondo gli elementi della materia, ma di “rinascere dall’alto”, come lo stesso Gesù confessò a Nicodemo; rinascere alla luce, potremmo dire, in quella tenerezza che, in ebraico, si traduce con rahamim (םימחר) ovvero l’utero materno per eccellenza, l’utero di Dio. Rinascere nelle viscere di un amore viscerale. «Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione». (Osea 11,8). Altrove, il profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15).
Mi catturavi, ancora mi seduci
e il tempo evade dalla cieca stanza,
cadono i lacci, e sono un altro io.
O ancora, l’esperienza di Lazzaro:
Ma un morto che pure rinasca non può nulla
se tu non ordinassi a tutti i Tuoi
di scioglierlo dai lacci che lo serrano.
E lui si fa sbendare, riconquista
la libertà degli uomini, il suo rischio.
La rinascita del Risorto è la libertà degli uomini, la libertà di poter essere veramente umani, cioè teneri, misericordiosi, poveri, stranieri, servi. Incredibilmente, la nostra libertà si gioca tutta nella capacità di servire, capacità che viene solo dall’alto, da Dio.
Più profondamente, però, l’opera di Resurrezione di Cristo ci spinge al di là della materia, ci porta (se ci lasciamo portare) ad elevare la carne della nostra umanità fino ad una piena trascendenza divina.
L’idea del Cielo mi angoscia, non ne afferro
(come potrei?) la consistenza. L’assenza
del tempo mi sovrasta e mi impaurisce.
Ma se avrò modo di fissarmi in Te,
di sentirTi parlare, di guardarTi
dritto negli occhi, che può importarmi del resto?
Sulla trascendenza la poesia ricerca l’idea, si accosta alla filosofia, alla teologia, perché cerca sostegno in scienze sorelle (anche se la modernità le vuole separate, ahimè!). Il poeta vuole afferrare la consistenza del Cielo … che è quel tenerissimo amore. Tutte naufragano in questo tentativo, anche la poesia.
Impossibile, infatti, è far entrare il Cielo nella nostra testa, parafrasando il grande Agostino. In questa impossibilità, però, si nasconde una fervida tensione, sia pur effimera. Teso, con il naso all’insù, sta il poeta, e ci riempie di domande: tra un verso e l’altro, infatti, troviamo moltissimi punti interrogativi, segno di una sincerità davvero umana, quasi pura, candida. Domande che spaziano, domande che creano spazi di senso, che riallacciano l’altitudine del Mistero con la nostra umanità attraverso la meraviglia.
Forse questa capacità di meravigliarsi del fanciullo che è in noi, che il poeta conserva e difende a prescindere, rappresenta il più corretto viatico per riscoprire la tenerezza di Dio e con essa la nostra tenerezza, fino alla tenerezza dell’amore fraterno, sorerno e infine integrale, completo, radicale che dà alle nostre vite sapore di eternità.
in “Nuova Ciminiera” (www.nuovaciminiera.it), 22 giugno 2022
Filippo Davoli, Dentro il meraviglioso istante
di Riccardo Canaletti

Poesia / è rifare il mondo, dopo / il discorso devastatore / del mercadante
David Maria Turoldo
Quando la poesia si intirizzisce è per il freddo dell’accademia. Cosa significa fare poesia oggi, tra tanti poeti “laureati”? La domanda acquista peso se accostata ai versi di Turoldo che aprono questo testo. Fare poesia in un mondo così intriso di intellettualismo facile e abbandono della lirica, significa “rifare il mondo, dopo / il discorso devastatore / del mercandante” dove la parola che si smercia è quella calibrata sulle intenzioni del poeta non troppo presente nel libro, ma ineliminabile dai Festival. Una poesia in cui il poeta sparisce, invece, si contrappone allo spaccio. Dentro il meraviglioso istante (CAPIRE edizioni, 2021) è un’opera completa e totale che rifà gli occhi al mondo. Bella prefazione a firma di Giovanni Tesio troviamo un’importante precisazione da tenere a mente per tutta la lettura del testo di Davoli:
“Due le modalità che in una si congiungono. Da una parte la definizione del mondo – dell’universo di Davoli: la sua collocabilità, la sua collocazione, la sua ‘residenza’ […] [la seconda modalità, ndr] vale a dire la scrittura. Una scrittura che incide la parola con limpido bulino ceracndo di sollevare, sì, il quotidiano a misura d’eterno.” (pp. 7-9).
Il libro è estremamente corposo, sintomo di un’emergenza che non viene acquietata dallo scrivere, ma che lo scrivere può testimoniare in modo consapevole, se il poeta è consapevole. E un’altra cosa che traspare dall’opera di Davoli (in questo testo come nei libri precedenti) è tale consapevole, che si fa autocoscienza nel momento in cui l’autore sa di sapere ciò che ha lasciato maturare dentro di sé senza risparmiarsi. Sempre dentro il meraviglioso istante, appunto. E tanto è forte la capacità di imprimersi nell’attimo, che il momento dell’esperienza diventa malleabile: “Lascio che l’ultimo caldo mi catturi / domani.” (p. 106). Se il poeta fosse un egoista per natura, non avremmo una raccolta del genere, tanto concentrata sulla vita, quanto a fuoco rispetto a un senso di comunità (che può essere di volta in volta quella cristiana, quella umana, quella adulta, persino quella bambina), quel “tu un loro” (p. 57).
Francesco Tentori si definisce in quanto poeta con questi versi (da Nel cerchio della vita): “Poeta che incarni/ nelle parole l’ansietà e la pena/ e con la pena la speranza”.
Filippo Davoli, che pure pubblicò ai tempi della rivista Ciminiera una raccolta antologica dei testi di Tentori, potrebbe tentare una definizione quasi opposta: Poeta che incarni nelle parole la speranza / e con la speranza la pena. L’autore, infatti, non esclude, come non è possibile escludere dalla vita, il dolore che in quest’ultima opera prende, tra gli altri, la forma dell’esperienza traumatica del sisma del 2016/2017. “A colpi, a brani si scarnifica / la mia terra dolcissima.” (p. 53). Ma questa pena slitta nella speranza che è nelle parole. Una speranza che ha per corpo la risolutezza, perché c’è sempre “nel farsi delle cose la bellezza / e la stranezza colma della vita.” (p. 122). Così Dentro il meraviglioso istante non cerca di comprendere la vita, ma la accetta, la prende. La speranza forse non è terrena, ma certamente è nella poesia che si fa da ponte tra la terra (teatrale, scenica) e un altro che il poeta vive direttamente ma senza maschere o finzioni. Per questo Dentro il meraviglioso istante può risultare anche crudo (“Solo dio può fermare questo assillo. / Abbi pietà pure di me, Gli dico.” p. 131).
Dentro il meraviglioso istante, tuttavia, ti lascia pulito, come se avessi bagnato gli occhi in una sincerità trasparente, avendo assistito al testa a testa tra uomo e vita, uomo e dolore, uomo e speranza, e uomo e Dio, e solo quest’ultimo ammette Davoli stesso tra le righe, è un confronto vinto in partenza dall’Altro. L’unico confronto che abbia diritto a vincere. E a quel tuo che vince tutto, il poeta chiede: “(Liberami, Tu che puoi, da quel me / che fa schermo alla voce, sorprendimi)” (p. 136).
Vorrei che queste non fossero parole
ma un piccolo testamento del volere.
Non però assimilabile a un lasciarsi andare,
quanto piuttosto a una più piena coscienza.
Vorrei lasciare il mondo come la mano
che sfiora lieve la tastiera del pianoforte
e non perde respiro nel portamento.
Le dita sanno cosa detta il cuore.
Vorrei che le parole che dicemmo
e che scrivemmo sparissero nel fuoco,
arse dentro l’amore.
Vorrei lasciare un segno di rimando
all’ora della nascita. Significare
non altro che un pulviscolo su cui
la luce imprime un nome.
Vorrei un destino di parola innamorata
che non si sazia di sé. Vorrei vibrare
nel Corpo di un’infinita gratitudine,
perché la Sua è una voce che non si dimentica.
Vorrei capirlo, ma non è questo. È invece
aprirmi senza remore al suo volo.
Vorrei che si capisse che è per grazia.
La pagina fu tramite fiorito
del respiro e non altro. Solamente
nell’alone del transito si illuminava.
Oltre e durante ci segnava un vento
che leviga le pietre, un’acqua dolce
che dà forma alle cose.
Io lo dicevo come il dito indica.
in “Inverso” (www.poesiainverso.com), 23/09/2021
Un disegno che mi supera. Dentro il meraviglioso istante di Filippo Davoli

Nell’introduzione all’antologia Poesie (1986-2016) di Filippo Davoli, edita da Transeuropa (2018), Massimo Morasso parla di «grazia dello stile semplice». Da allora sono trascorsi tre anni; dall’uscita del libro d’esordio In epigrafe (Mierma 1986) più di trenta, eppure nella breve nota che chiude il nuovo Dentro il meraviglioso istante (CartaCanta/Capire 2021) Davoli considera valida la possibilità di scrivere «sempre lo stesso libro», perché in fondo «la poesia fa lo stesso tragitto della vita» e «la ri-vela»: seppur «cambiata di tono, arricchita dall’esperienza, con-vertita, […] il fondamento rimane quello che l’ha originata». Che sia la vita, insomma, o la poesia che ne sgorga – e non viceversa, come spesso Davoli invita a riflettere in confidenza, al tavolo, invertendo il flusso di certi vizi assurdi del pensare – tanto l’una quanto l’altra non possono essere snaturate («Sono uno che scrive […] So soltanto / che devo», «È la mia lingua. È la mia natura»). Così nella prefazione all’ultima raccolta, con altre parole, anche Giovanni Tesio rileva che a «prevalere è l’immediatezza della comunicazione», l’«equilibrio di scrittura». Oltre a Tesio già Franco Loi e Massimo Raffaeli, ad esempio, sono andati alla ricerca della sorgente di questa limpidezza linguistica, rintracciando una linea che tra gli altri – compreso Montale, secondo chi scrive, spesso sintatticamente vicino, oltre che a livello lessicale in scelte quali «pomario», «dipana», «gazzarra» – coincide soprattutto con il magistero di Mario Luzi e Vittorio Sereni: ivi s’innesta la recente opera di Davoli, che non rinuncia al controllo espressivo tipico della tradizione lirica novecentesca e non solo. Il tono complessivamente elegiaco, la versificazione piana, il dettato calibrato e improntato sulla modulazione sciolta in particolare dell’endecasillabo favoriscono l’armonizzazione di tutti gli elementi, comprese le non rare infiltrazioni terminologiche colte e dialettali. L’autore stesso ribadisce che Luzi è il riferimento principale (alcune sequenze ipotattiche e interrogative disseminate qua e là ne sono un saggio), scegliendo un passaggio di Sotto specie umana («Però dentro la vita, dentro / il meraviglioso istante») come esergo e per intitolare la sezione eponima di inediti, preceduta da Riletture di versi già pubblicati e revisionati. Come esergo, si diceva, ma non l’unico: una citazione da Novilunio di Alfonso Gatto («Ora mi vedo in alta strada e ascolto / il mio silenzio») traccia un’altra coordinata che spinge Tesio a indagare e segnalare la presenza di un «ermetico strascichio», annotando che Davoli «in qualche caso anche passa attraverso una potenzialità analogica che si manifesta in salti mitemente quantici, riconducibili a più assorte atmosfere di ascendenza remotamente ermetica (un ermetismo postremo e profondamente rivissuto e ri-usato)». Tali slanci trovano la loro ragion d’essere nello spiritualismo, nella consapevolezza che il corpo («Da quel me / che fa schermo alla voce») e tutto ciò che partecipa alla manifestazione del reale siano il riflesso di un progetto divino, promessa di libertà eterna («Oggi che almeno nell’intenzione sono libero / di stare dentro un disegno che mi supera»). È qui, forse, che coincidono il cristianesimo luziano e il richiamo al vertiginoso e impronunciabile silenzio di Gatto («Silenzio che scalmana», «È sempre più elevato il silenzio», «Solo silenzio / di chi guardando ascolta», «Quel silenzio irreale che pare la neve», «Ora un grande silenzio di molecole», «E in quel silenzio irreale sento di essere / un tutto che si apre dal suo nulla», «Ci troveremmo / come allora in silenzio dentro le ore»): nell’oscillazione tra riferimenti tangibili, nitidi, orizzontali e la sensazione pura, abbacinante, verticale («Senti portarti via, uscirti, essere / attraversato dai giorni, dentro un oltre») di una «grazia», appunto, e di una «luce», che riproducono verità trascendenti e assolute («Significare / non altro che un pulviscolo su cui / la luce imprime un nome»). Il contatto con il carattere pulsante degli eventi e degli interpreti più prossimi, spie di un mondo che offre occasioni quotidiane di riflessione all’osservatore e all’ascoltatore che le sa cogliere, fa pensare a un poeta-flâneur che assorbe ciò che lo circonda: negli spazi – paesaggi borghigiani, marittimi e collinari – si muovono persone (affetti vari, amici, famigliari) e personaggi (su tutti il caro, benché lontano nei secoli, concittadino Padre Matteo Ricci e l’amata Mina), membri della comunità umana convocata a stringersi per condividere («Un’emorragica distanza / del comune sentire») e orientarsi («La nostra vita ridonda di grumaglia»), per reggere l’impatto di avvenimenti tragici come quello del terremoto (si veda il poemetto Zirzilah, che in lingua dari significa proprio terremoto), per testimoniare il «farsi delle cose» sedimentato nella stratificazione di un tempo nostalgico («L’orma di un ricordo, l’aura / di un altro vivere», «Anni trascorsi per poterci raccontare / qualcosa di inedito»), nelle cui «vicissitudini occultate» (che non a caso ricorda la «vicissitudine sospesa» di Luzi) smarrirsi («La parte che non so della mia vita») e ri-conoscersi («Non si tratta tanto di sapére quanto di sàpere») attraverso la parola: «Le parole, / sono loro che ogni giorno inventano il mondo».
in “Poesia del nostro tempo” (www.poesiadelnostrotempo.it), 01 giugno 2021
Le vicende di una bellissima storia. Per Filippo Davoli

Da tempo mi ripromettevo di scrivere sulla poesia di Filippo Davoli, della cui opera e lezione mi sento profondamente debitore. Mi fa piacere farlo a ragguardevole distanza dall’uscita della sua antologia Poesie, 1986-2016 (Transeuropa, 2018), e in occasione della sua nuova, corposa raccolta, Dentro il meraviglioso istante (Edizioni della Meridiana, 2021) per un motivo fondamentale. Mi è particolarmente congeniale scriverne ora che ho quarant’anni, a distanza dall’epopea della rivista cartacea Ciminiera, a Macerata, durante i miei anni universitari, per una ragione critica che a me sembra assolutamente fondata. Nella splendida introduzione all’antologia Massimo Morasso scrive giustamente che nessuno che abbia incontrato e ascoltato i versi di Davoli può dubitare del suo talento, della bontà e naturalezza della sua vocazione. E’, forse, quella di Davoli, una parola che sa colpire e affascinare a un primo ascolto, tanto possono essere seducenti alcuni suoi versi musicali, le sue improvvise aperture, le tante, ricorda ancora Morasso, strepitose chiusure, o “certe clausole che scattano vibrando in un polline di suono”, che Massimo Raffaeli avvicina addirittura a Fortini. Eppure, come recita una delle prime brevi liriche dell’antologia, da Poemetti del contatto (1994):
“La scrittura…che fascino…”
e invece
altro non era
che varcare la soglia, intromettersi
in un retrobottega.
La luce che proviene dai suoi versi può essere accolta solo attraverso un ascolto umile e paziente. Ne sono prova anche le occasioni in cui Davoli si è cimentato come lettore dei suoi versi, la sua voce profonda ed essenziale, mai sopra le righe, in controtendenza, ad esempio, con l’attitudine di tanti attori a spettacolarizzare la recitazione delle poesie, soprattutto quelle altrui, come se la poesia avesse bisogno di una rappresentazione sovrapposta che drammatizzi il corpo a corpo con la parola del suo autore. Davoli sa invece perfettamente di dover soggiogare il proprio io, castigare il proprio dono; nei suoi esiti migliori egli si fa tutt’uno con il proprio strumento (la voce) fino a sparirci dentro, come scrive in una splendida poesia di La luce, a volte, a proposito di un eccellente violinista. Il mio tentativo sarà quindi quello di accostarmi al segreto della sua vocazione, alla “grazia dello stile semplice”, per citare ancora Morasso, attraverso una lettura attenta, che permetta di accedere a quel retrobottega.
Fin dal primo incontro con lui a Macerata, per un corso di scrittura che si teneva a due passi dallo Sferisterio, nel 2001, Davoli ha chiarito che per lui la poesia, la scrittura, era semplice; non facile, ci teneva a precisare. La semplicità, in questo senso, giunge infatti da uno studio instancabile, dalle vaste letture dei maestri del “Grande Stile”, la linea lirica che da Petrarca si snoda fino a noi, dall’ascolto di una parola che chiama (“Ci sono ore credo fatte apposta/per scarabocchiare,/giorni di rimuginio…/Non ho trovato di meglio che ascoltarti,/parola”), che non si possiede. Davoli ha scritto molto sul mistero della propria vocazione, con accenti che mi hanno spesso richiamato alla disposizione mistica verso la parola impastata di vita di Franco Loi, che non a caso, riprendendo il poeta inglese Coventry Patmore, amava ricordare: “in fondo il mistico e il poeta vivono dello stesso movimento, con una differenza capitale: il mistico non parla; il poeta usa le parole”. Loi ha parlato spesso della poesia come qualcosa che non viene dalla mente, ma che è un dono dell’Essere, un Essere che parla al posto nostro. Lo ha scritto meglio di chiunque altro Dante:”i’ mi son un che, quando/Amor mi spira, noto, e a quel modo/ch’e’ ditta dentro vo significando”. E credo che nè a Loi, nè, ci scommetterei, a Davoli, interessi la tanto equivocata ispirazione romantica, nonostante il “vizio di scrittura” notturno del secondo.
Quanto la poesia di Davoli risenta della lezione di Loi è avvertibile perfino confrontando alcuni testi:”Dentro la parola aperta io mi perdo,/divento le cose del mondo, l’aria che passa,/quella parola che sta dietro l’aria/e si fa chiara agli occhi che stanno nel tempo,/e se io parlo non so chi è il parlare,/è il vento che si dice col mio sentimento,/poichè niente si fa dal niente e nel pensare/la voce che mi chiama mi viene dentro” (Loi, da Isman); “La luce a volte. Un balsamo/che scende al consolato/cuore, dove l’incontro si fa carne./Così mi accogli in queste oscure pagine./Ed io non so/che accettarne l’incarico, procedere/per frammenti di me fra le parole” (Davoli, da La luce, a volte)
Del resto lo stesso Davoli non ha mai mancato di ricordare l’intensa amicizia, pur nella differenza di età, e la lezione di vita di Loi, anche come lezione etica nel modo di vivere la poesia. Tra i frutti del sodalizio c’è anche la fondamentale introduzione di Loi ad Alla luce della luce, opera per la quale mi permetto di dissentire con Morasso quando scrive che il primo libro davvero importante di Davoli sia padano piceno del 2003. Mi sembra invece evidente che la fase centrale della poesia di Davoli fosse cominciata qualche anno prima, con Alla luce della luce, appunto, che assieme a Un vizio di scrittura e Una bellissima storia formano un trittico che merita di essere approfondito. Siamo a mio parere nella fase “classica” di questa vicenda poetica. Rimanendo al tema della classicità, l’appartenenza a una tradizione resta un punto cruciale di questa poesia, assieme alla sua musicalità, in accordo con il background amplissimo di Davoli e con la sua formazione, che passa per lo studio del pianoforte e la grande sensibilità del suo orecchio assoluto. “Io non riesco a ricorrere a giochetti linguistici, a intorcinarmi con le parole…L’unica cosa che so è che la vita di ogni uomo, la vita umana, la storia degli uomini, è abbastanza sanguinante per pretendere una responsabilità vera, da parte di chi è chiamato a dire”, mi ricordava l’autore stesso in una conversazione. In un naturale “equilibrio nell’affrontare la pagina” (Garufi) Davoli mantiene un’indole prettamente marchigiana; secondo alcuni critici, come Raffaeli, sarebbe addirittura il più legato alla tradizione. Ad ogni modo la “modestia piana” (Loi) dei suoi versi si attesta in prossimità della poesia di Sereni, aggirando le avanguardie, ma anche le “libertarie anarchie di un’apertura sconfinata”, seguendo un “temperamento ondoso-collinare”. (Con il “moto ondoso” delle sue colline Davoli spiegava anche la distanza da un poeta a tratti affine come Rondoni, in Una bellissima storia, raccolta piena di riferimenti a Il bar del tempo). Definizioni dell’autore, che parlando anche di “mobile terrosità” rispondeva proprio a Loi quando lo invitava ad aprire maggiormente la propria lingua poetica: il cognome di provenienza emiliana non può celare quanto Davoli sia un padano-piceno, ma la sua geografia emotiva non è legata al Po, al grande fiume, bensì, come scrive nella bellissima, omonima poesia, padano piceno:
Ho fermato il mio sangue.
Sono un padano fuggito per l’aria
coi vigneti a perpendicolo sull’infinito
e un ganglio di casolari abbandonati
all’estremo della luce. Io sono un villico
scampato all’abbandono delle colline.
Sbarco nel corpo della solitudine,
la mia parola mi costeggia e mi apre.
”un padano fuggito per l’aria”, dunque, ma anche “un villico, scampato all’abbandono delle colline”. Il suo, non è appunto il grande fiume padano, ma il mare terroso dei colli marchigiani, coi suoi “sovrumani silenzi”. In una poesia di Una bellissima storia, Vicolo delle scuole 4, Davoli aveva già scritto “io resterò residente” esplicitando quella che è la posizione fondamentale della maggior parte dei poeti marchigiani alla fine del Novecento, di restare nella terra d’origine (da ricordare, naturalmente, l’eredità di Residenza, il nucleo composto da Raffaeli, Scarabicchi e D’Elia tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, nucleo raccolto attorno alla figura di Scataglini). Una regione, le Marche, che spesso, proprio in quanto tagliata fuori dalla storia, ha potuto salvare la poesia, “amplificando lo scavo interiore e la discesa nel proprio io” (Garufi) dei suoi autori (“Sbarco nel corpo della solitudine”).
Da questa solitudine scaturisce sia la disposizione all’ascolto, sia l’emergere di una luce, interiore, che è il topos più proprio del Nostro a partire dal suo primo libro davvero importante, Alla luce della luce (1996), fino a una raccolta più recente, La luce, a volte (2016), che, nonostante la maturazione stilistica, non confligge affatto, vedremo, con la luce apparentemente più diffusa dell’opera degli anni Novanta. Basti intanto dire quanto il farsi presente alla luce della grazia, da parte di Davoli, ma anche, leopardianamente, all’ascolto del vento e alla ricerca dell’attimo, di un varco che si schiuda nel mondo, in un silenzio che, ci tiene molto a ricordarlo l’autore, non è mai assenza di suono; oltre la luce abbacinante o i rumori della giornata di ognuno e di tutti, la prospettiva di Davoli è sempre stata aperta non solo verso le sue colline che “degradano/fino a spegnersi in mare” (da I destini partecipati), ma anche alle persone normali come lui, a cui è legato da una “tacita complicità” (parola molto cara all’autore, che abita il lessico della sua emozione e percezione); le sole persone che possono rendere eccezionale questa vicenda. O ancora il suo sguardo si volge a tutte le “creaturine minori” (da I destini partecipati), con cui condividere il volo solo restando al proprio “metro di terra e di luce” (ancora da I destini), e soprattutto evitando di torcersi verso il proprio ombelico, bensì verso quei “destini partecipati” che vivono di “un’altra luce”, “un altro vedere”, e in fondo un altro sentire.
Già in una poesia come Notizia, di Alla luce della luce, la ricerca di un varco e di una voce alta avviene all’interno della relazione con le persone, passa dalla domanda che fanno gli altri?:
E quando scriverò che fanno
gli altri? non rispondermi
le solite cose la piazza il bar
quel riottoso ciarlare di bottega
fammi sapere che s’è aperto un varco
stabilito un contatto
che un guscio s’è dischiuso.
Alta la voce e poca
e vera.
Pur restando tra gli uomini che come lui “devono vivere la vita”, Davoli avverte la necessità di legarsi al proprio vizio di scrittura, ben consapevole dell’insufficienza della parola a dire la vita (“Amore, chi ti incontra non sa dirti”, scriverà più tardi ne I destini partecipati), già nel 1996, in versi come: ”Altro è la vita, è in un andare verso/la vita, verso il giorno. E non è qui”. Insistendo su una vita “girata altrove”, per dirla con Sereni, Davoli non si schermisce affatto; la sua non è la falsa modestia di chi poi in fondo investe tutto sulla poesia. Credo che l’idea di una vita che ecceda sempre l’arte e la poesia, e di una salvezza da cercarsi proprio tra gli uomini, nel dolore e nel luogo dell’insufficienza della parola (cioè la vita stessa), sia ben saldo in Davoli a partire da quel maledetto 22 novembre 1987, quando Remo Pagnanelli si tolse la vita. C’è una poesia, ne I destini partecipati, che nell’autoantologia compare proprio accanto a quella dedicata a Remo Pagnanelli. Non so se la mia può diventare un’acrobazia critica fuori luogo, ma non trovo parole migliori di queste, immaginando che Davoli le rivolga al maestro e amico Pagnanelli, al suo “rigore insanguinato” che peraltro ha orientato tutto l’afflato civile di Davoli nella scrittura e nell’esperienza della rivista Ciminiera:
Le escoriazioni non bastano, bisogna ferirsi,
andare a fondo del sangue, sgorgare da dentro
a una vita diversa, di lampi lunghi,
questo volevi dirmi. Certo è così.
Però non dimenticare che siamo uomini,
non fare di quella discesa
un eroismo inutile. Abbi a mente il tuo cuore,
ricorda da dove vieni e dove vai,
mentre cammini a fianco di tutti gli altri.
Ecco perché Davoli è categorico quando si scaglia contro la retorica della poesia che salva la vita: aveva già capito a 22 anni quanto quel dono e quel vizio a cui crede con tenace speranza, possa diventare una dannazione nel momento in cui ad esso si affida l’eccessiva responsabilità di contenere la vita. Sa che è pericoloso aggrapparsi solo a uno strumento infido come può essere la parola. Credo sarebbe d’accordo con Kafka quando, nella Lettera al padre scrive: ”La vita è molto più di un lungo esercizio di pazienza”.
Eppure quell’esercizio di pazienza non finisce di estinguersi, anzi acquista ulteriore slancio nel capitolo successivo della vicenda poetica di Davoli, Una bellissima storia, a partire da un evento doloroso che si incide direttamente nella carne provocando un’inevitabile svolta nella sua scrittura: la perdita della madre, che da questo momento non smetterà più di accompagnare la sua poesia. Come mi è capitato di scrivere per due autori molto congeniali alla scrittura di Davoli, Ferruccio Benzoni e Giancarlo Sissa, a proposito di una poesia che rivivifica il rapporto con la madre e con il padre, anche per il fermano (maceratese d’adozione) non so se la poesia per la madre abbia davvero la funzione di elaborare il lutto; la poesia al contrario mi sembra quasi la testimonianza luminosa di quanto il rapporto del poeta con la madre non si sia affatto interrotto, a volte persino intensificato da una parola che si fa invocazione, preghiera (“Per la tua porta mi svelai alla vita/e fu presto il suo grido, la sua luce”) Una preghiera che nella sua semplicità, sobrietà, si mantiene intima, domestica, al punto da sembrare, per chi la legge, davvero la preghiera personale verso la madre di un figlio prima di addormentarsi. Inutile dire quale commozione possa suscitare una poesia simile quando arriva a questa altezza, spoglia di ogni retorica, visto che la dolcezza del ricordo non può nascondere il dolore lancinante dell’assenza, la ferita ancora sanguinante (“Così passano i giorni/ma non il mio male, non trascorre/la tua voce dispersa”). La morte non interrompe il dialogo e il rapporto tra Davòli e la madre, lo cambia radicalmente. Spesso la dizione è al presente, a conferma di un colloquio intimo sempre vivo, a un rapporto che non si è estinto; a volte il poeta parla persino al futuro, non guarda quindi con rimpianto al tratto di strada percorso insieme alla madre, ma attende a un futuro di pienezza nel ricongiungimento.
A partire dal 2000 la presenza della madre si effonde in tutti i libri, ma negli anni successivi l’invocazione non è solo alla madre adottiva: nelle poesie per la madre (per le madri) convive anche la madre naturale, a cui le ricerche dell’autore non sono riuscite a dare ancora un nome e un volto. Dopo un iniziale turbamento, le vane ricerche hanno conferito alla madre naturale del poeta una vicinanza quasi fraterna, nonostante il poeta le sia figlio per sempre:
Madre, mia prima ed ultima sorella
cui forse ritornerò da polvere schiusa,
se leggi certo capirai chi sono.
Da tanti giorni nei giorni non ti penso
se non nelle preghiere.
Madre, fosti un tumulto
che sprofondava l’anima in delirio.
Poi ritornò la pace, ed eri e sei
la sorella segreta che mi volle
e questo di sicuro non è poco.
Sei il sangue che si ammala, sei le ossa
che cedono all’usura anticipata.
Sei gli atomi degli occhi, che sono tuoi.
E in tutto questo che tocco mi manchi.
Questa poesia è contenuta in realtà in una raccolta successiva, Come all’origine dell’aria, del 2010. La poesia che segue, nel poemetto dell’antologia, riprende con poche varianti una versione della stessa in Una bellissima storia (lì con il titolo L’alter):
Se ti incontro tutti i giorni non so
se magari ti sfioro e ti saluto
e tu non lo sai che c’è di più.
Non lo so, non lo sai, forse sospetti
oppure no un volto familiare
sperso nel mondo ed invece l’hai qui.
O forse così lontana, così altra
soltanto altrove ti conoscerò. Guarderemo
distrattamente il ticchettio degli astri
e farsi strada la luce, la comprensione
del sangue, ma come in un fiume
sovrumano di tenerissime solitudini.
Nella versione del 2000 il futuro riferito all’incontro possibile con l’altro, in terza persona, allude alle potenzialità latenti e misteriose che riserva appunto un altro da sé in cui però riconoscersi; “ti conoscerò” è invece riferito alla madre naturale che Davoli attende ancora di conoscere. La presenza della madre, delle madri, attraverserà ancora a lungo la poesia di Davoli, fino addirittura a un poemetto sul terremoto del 2016, nel quale il Nostro stabilirà un’analogia tra la catastrofe naturale e, appunto, la morte delle madri (“Niente più nidi a cui tornare…”); la sequenza poematica, dedicata al bandoneonista e compositore di tango uruguaiano Ulises Passarella, troverà pieno compimento nell’ultima raccolta sulla quale torneremo in seguito.
Ma sia Un vizio di scrittura che Una bellissima storia non sono solo due grandi capitoli autobiografici di questa vicenda poetica. Si affaccia in entrambi anche la poesia civile di Davoli, ma sempre nel senso sereniano del termine, se leggiamo una poesia per me mitica (la prima poesia di Davoli che io ricordi), La condizione del braccato, alla luce di un folgorante aforisma del poeta di Luino, da una lettera (“Non ho una cosa da affermare in assoluto, una mia “verità” da trasmettere. Ho dei conti da saldare con l’esperienza”):
La condizione di un braccato è come all’alba
un cupore che abbaglia, un’obbligata
scelta di campo. Ora si versano gli occhi
ora ascoltando si aprono alla luce
e la parola prende suono e corpo.
E’ una stanchezza che ormai dismisura
intuire la forza di una parola spesa
al culmine di un abbandono tra le braccia
artigliando la vita come si può.
Io però sono uno che sente ma non conosce.
Sola mia è la costanza
di vedermi invecchiare giorno a giorno,
brano a brano
di essere
nato postumo anch’io.
(da Una bellissima storia)
Si tratta, per il Nostro, di un impegno che scaturisce dall’ineludibile richiamo della poesia a non rinunciare al senso e al messaggio che le spetta. Un impegno che intride sempre la sua poesia, e con essa l’attività come direttore della rivista Ciminiera, fondata con Giovanni Cara nel 2002, e successivamente codiretta con Gabriel Del Sarto. Unendo l’idea di Scataglini di una poesia che si spezzi con il pane e si beva con il vino, da una parte, con il “rigore insanguinato” di Pagnanelli, cioè uno scandaglio critico che indichi un orientamento, per autori e lettori, in grado di resistere all’usura del tempo, e dunque non dissolto nel grande guazzabuglio postmoderno, dall’altra; Davoli riesce a dar vita a una rivista divulgativa, ma di rilevante qualità critica, diretta non solo agli addetti ai lavori, ma soprattutto costruita sull’idea del cenacolo, più che il circolo esclusivo, di una palestra aperta in cui generazioni differenti possano confrontarsi sullo stato della poesia e delle arti, anche favorendo l’accesso all’officina degli autori. Un ulteriore punto di forza è rappresentato dal dialogo fra le arti più disparate: la rivista non chiama a raccolta solo poeti e scrittori di generazioni diverse (Franco Loi, Giuseppe Rosato, Gian Ruggero Manzoni, Paolo Ruffilli, Silvia Bre, Alberto Cappi, Giancarlo Sissa, Massimo Gezzi, ecc.), ma anche cantautori come Claudio Sanfilippo, pittori come Wladimiro Tulli, attori, fotografi, ecc. A farla da padrona certo è la poesia, la poesia di autori che però, come spiega lo stesso Davoli in un editoriale scritto a quattro mani con Del Sarto, rifuggono la visione contemporanea e postmoderna di un io che “ci offre e ci richiede…una sorta di complicità nei confronti di uno sguardo che descrive la vita come un’esistenza vuota e non abitata dal senso, attraverso l’assunzione di un nichilismo che però elude la tragicità, quindi poco serio e credibile”. Lo sguardo è al contrario quello di “un io esistenziale, storico e lirico”, per nulla “privatistico e neocrepuscolare”, che “parla a partire dal proprio vissuto, dal proprio privato come luogo e tempo rivelatore di senso, traendone verità valide per tutti. Questa posizione delinea un orizzonte di ricerca e di attenzione e assegna, crediamo, una posizione prioritaria al quotidiano e alle emozioni che in esso accadono. Così la poesia può recuperare un mandato che aveva: dare spazio alla dimensione intuitiva (non argomentativa) della conoscenza attraverso una ricerca di senso, che è valida solo perché attraversa ciò che accade nelle relazioni e nella vita dell’uomo”. Personalmente credo che grazie al filo di nostalgia verso la rivista cartacea che percorre Nuova Ciminiera, nonostante la semiclandestinità a cui la confina l’online, essa non solo non smarrisca il fascino della rivista originale; ma non ne perda la forza, il legame con le grandi riviste storiche, che quasi non esistono più (Paragone, Il Menabò, ecc.).
Mi pare opportuno insistere sui caratteri sereniani della militanza di Davoli anche raffrontandola ai toni di una rivista che a me pare molto simile, negli intenti, a Ciminiera, e che ha come protagonisti degli accaniti seguaci e amici proprio del poeta di Luino. Mi riferisco ai “ragazzi di Cesenatico”, Ferruccio Benzoni, Stefano Simoncelli, Walter Valeri e i loro sodali, che diedero vita alla rivista Sul Porto, e sui quali Giovanni Raboni scrisse:”…quando Ferruccio, Stefano e Walter sono venuti a trovarmi per la prima volta a Milano, preoccupatissimi loro e io di dover parlare “di letteratura” o magari “di politica”. In realtà abbiamo parlato di calcio, soprattutto; ma il sottinteso, naturalmente, era la poesia. Certo, la poesia come sottinteso: la cosa di cui si può anche non parlare, tanto viva e fitta è la sua presenza, tanto ben acceso, tranquillo, onesto è il suo fuoco. Si vive con questa cosa dentro, per il resto tesi e appassionati alla vita con l’indifferenza, la disponibilità, l’allegria di una persona che nasconde e alimenta un amore. Devo confessarlo: diffido dei poeti con i quali si può parlare soltanto di poesia; non riesco a non pensare, allora, che il fuoco, il fuocherello non ce l’abbiano dentro ma davanti, e ci si scaldino compiaciuti le mani. Nessun sospetto o problema del genere, mai, con i poeti-fratellini di Cesenatico, confermatisi col tempo (man mano che diventavamo amici) fidatissimi nel senso appunto della capacità e della voglia di parlare d’altro, di essere curiosi d’altro (di tutti gli sport, di tutti i film, di tutte le canzoni) mantenendo fermo il sottinteso della cosa, restando fedeli all’ombra della cosa, quella che dà senso alla vita, per la quale si può anche morire, ma sul conto della quale non c’è davvero bisogno di fare pettegolezzi”. Ecco, credo che la fedeltà a questo “sottinteso” abbia attraversato anche il sentire di tutti coloro che hanno scritto su Ciminiera. Sereniana è stata sempre la coerenza di Davoli, il suo schierarsi mai stretto nelle logiche delle conventicole letterarie o politiche. Ho sempre trovato curioso, tra l’altro, il fatto che i poeti di Cesenatico, che avevano anche scritto per Il Manifesto, parlassero non solo dell’importanza di fondare una rivista, ma anche di svolgere “un’azione comunitaria, di mutuo soccorso, cristiana”, e che al contempo alcuni accenti negli editoriali del cattolico Davoli potessero acquistare una carica eversiva degna di un marxista! Ma se penso alla coerenza di Sereni a cui tutti questi eredi si ispirano, al suo mito esile e resistente come l’acciaio, pur nelle lancinazioni del confronto con un quotidiano che non si ama, davvero certe etichette possono avere scarsa tenuta o importanza.
Scrive Davoli nella poesia Ciminiera, nel frontespizio del primo numero, e poi in padano piceno:
Lavorare al chiuso d’una fornace
con le mani che si rovinano e non si fermano.
Ci si passa la vita a morire
giorno per giorno, ma si va avanti,
solidi come il camino, sodali
che o ci si tiene stretti o si vola via.
Ci resta dopo un fumo che sale
attraversandoci il corpo
su, verso l’alto
e tu che cammini altrove lo guardi
e lo riconosci.
Ciò che nasce dal sodalizio della rivista, dalla sua officina, è frutto di un lavoro concreto: Davoli concorda con Francesco Scarabicchi quando afferma che “nessuna arte è astratta, è sempre corpo, respiro, sangue”. Il lavoro passa dall’individualità e dal corpo di ognuno, ma allo stesso tempo bisogna tenersi stretti alla relazione concreta con i tuoi compagni di viaggio, proprio come gli umili dell’amato Pratolini (forse il romanziere preferito di Davoli): chi esce dal cerchio della relazione, dalla comunità delle origini, ne Il quartiere, è destinato a perdersi, e lo stesso scrittore alter ego di Pratolini trova la salvezza negli amici che impediscono alla scrittura di isterilirsi nel solipsismo. Ciò che esce dalla ciminiera, “verso l’alto”, non è che fumo, non è nulla di così prezioso e scintillante, è frutto di un lavoro che, scrive Davòli, “non produce gloria per chi lo fa”, non ha che un valore di testimonianza, di un comune sentire e di un’umanità nuda che non si nasconde, e può essere riconosciuto da chiunque abbia l’attenzione di guardare verso il cielo.
La carica polemica nei confronti dell’ambiente letterario o accademico è, in ogni caso, insita nella poesia di Davoli da sempre, nasce dalla sua adesione carnale e senza compromessi, alla vita; già in Aula due di Un vizio di scrittura troviamo:”Ma se a un certo livello dell’andare/la carta si assottiglia e l’umanità,/forse anche restare aggrappati è impossibile./Così, chiudendo la cartella/senza immaginare più nulla d’altro, vivendo”. E Davoli non ha mai fatto mistero, ad esempio, di come la pensasse sul trattamento riservato a un gigante come Pagnanelli dalle istituzioni accademiche maceratesi, non spinto da uno spirito polemico di provincia, ma valutando i danni reali provocati dalla rimozione della sua poesia e del suo rigore interpretativo, nella drammatica assenza di un sistema critico-estetico che il maceratese era invece riuscito a tenere solidamente in piedi.
La fedeltà a un dono che non gli appartiene, che non può possedere, non può che spingerlo anche alla polemica, dicevo, verso l’ambiente letterario e le sue dinamiche di opportunismo. Devo dire che fa molto onore a Davoli aver sentito dalla sua voce una certa indifferenza e insofferenza verso il mondo dei premi letterari e l’atmosfera creata da chi, parole sue, vincendo un premio “si sente arrivato”. Gli fa onore soprattutto perché queste parole le ho sentite poco tempo dopo che il Nostro era stato finalista del Premio Montale 2001. Lo riporto non per un semplice gusto aneddotico, ma perché credo che poi il distanziarsi sia da questo ambiente, sia da quello provinciale e urbano, più volte sezionato impietosamente, provochi le straordinarie aperture della sua voce, libera dalle pastoie con cui deve pur fare i conti. A volte per far ricorso ad un’analogia affine al sentire di Davoli, potremmo addirittura chiamare in causa Leopardi quando in una lettera alla sorella Paolina scrive: ”Dopo tanto cincischiar con le parole sono stato finalmente preso dall’allegrezza della poesia!”. Ed è forse in particolare nella musica che Davoli viene preso da questa allegrezza, che si riverbera nei suoi versi. I punti di contatto della poesia con la musica sono continui, il background musicale dello scrittore anche musicologo spazia dai cantautori italiani a Chopin, da Milton Nascimento alla venerazione per Mina, la cui voce arriva ad assumere per Davoli un paradigma estetico di riferimento per la propria. Alla “tigre di Cremona”, alla sua voce e alla sua vicenda, il Nostro ha dedicato una delle sue liriche migliori:
Mi piacerebbe che tu mi cantassi
ancora dall’inferno
con l’intensità che viene da una carne
che non trova pace. Allora
un acuto è una coltellata
e in un silenzio c’è tutta la tenerezza
dell’infanzia perduta. Allora
se graffia e arrota la voce è storia
e lezione di ferita e passione.
Ma posso chiederti una cosa simile
ora che hai trovato stabilità
e sei finalmente una donna qualunque
che vive la sua vita normale?
Contro me stesso ti auguro
giorni a discapito, al limite,
della tua arte, giorni di nido.
Non l’annottamento del cuore, però,
e se vuoi qualche ulteriore
folgorazione, qua e là.
Giorni lineari, ma densi
di esemplarità.
(a Mina, encore…)
L’estasi che gli procura il miracolo della voce di Mina, nei suoi esiti più felici, avviene quando il rapporto tra arte e vita viene toccato dalla luce della grazia, quando cioè la voce stessa, o la parola poetica, divengono “strumento di chiarificazione della carne che al corpo dà significato” (Davoli), rifiutando l’impostazione diffusa di una parola incarnata relegata al ruolo di voce del corpo. Davoli fa sua la riflessione di Michel Henry (Incarnazione – una filosofia della carne): “l’incarnazione consiste nell’avere una carne, forse, più ancora, nell’essere carne…L’uomo che non sa nulla, nient’altro che la prova di tutte le sofferenze nella sua carne martoriata, il povero, il ‘piccolo’, ne sa forse più di uno spirito onnisciente situato al termine dello sviluppo ideale della scienza”. E forse in quest’ottica si può anche leggere la replica di Giovanni Testori a Cristina Campo: quest’ultima parlava del poeta come l’entomologo, capace di amare la vita nei suoi piccoli aspetti; da qui il rilievo di Testori, accolto da Davoli, “non basta amare la vita, bisogna soffrirla”. Lo stesso Pagnanelli del resto ha parlato della necessità della poesia di farsi testimonianza viva, della vocazione dell’arte al sacrificio, al martyrion.
Tornando all’aspetto musicale nel percorso del poeta, egli non ha mai smesso di far dialogare la propria poesia con la musica, fino al felice esperimento di Avevamo un appuntamento, un cd del 2016 frutto del sodalizio tra Davoli, Neri Marcorè e Claudio Sanfilippo. Ideato grazie all’intesa di un terzetto di amici magnificamente ispirato, forse è anche sbagliato usare la parola “esperimento” per un incontro tutt’altro che freddo, anzi molto diretto, naturale, che per queste caratteristiche riesce ad esaltare la poesia “scabra ed essenziale”, ma allo stesso tempo avvolgente, del Nostro, con la voce asciutta di Marcorè e la chitarra-voce cantautorale di Sanfilippo che vive dello stesso “randagismo” delle liriche del flaneur di provincia Davoli.
Quella dell’equilibrio tra esperimento prosastico e tensione musicale in Davoli è una costante che aveva già rilevato Garufi, prima dell’uscita di Un vizio di scrittura, e che si mantiene anche in tutte le opere successive. E ciò che lo stesso Garufi aveva notato fino a quel momento (un “insistente e quasi ossessivo uso del repertorio urbano, con le sue mura restrittive, con le sue ripetizioni, con la falsa comunicazione e i riti delle borghesi educazioni…l’ascendenza-tematica-leopardianmontaliana nella esegesi del muro e della siepe…produce una galleria di analoghi luoghi claustrofobici e occlusivi: dai vicoli, a certi impervi percorsi dentro la sua città”), con la conseguente ricerca di un varco e di una voce in grado di “circoscrivere gli eventi apparentemente minimali elevandoli al rango di occasioni universali”, giunge a prefigurare una dialettica claustrofobia-claustrofilia piuttosto evidente in Una bellissima storia. Lo sguardo del poeta sulla vita provinciale può essere indulgente e spietato (anche verso sé stesso) perfino all’interno della stessa poesia, come nella compiutissima Al Pozzo:
Un suburbio di voci, altro non era
quel rumoroso fronte sotterraneo
dove si liquefanno le parole
e ogni tanto vedi apparire un conoscente
da salutare.
Sono le varie umanità del borgo
scambiato per metropoli. Noi lo viviamo
forti di un piccolo nodo di benessere,
di una ironica e tenera complicità.
Così troppo spesso trascorriamo le sere
seduti al solito tavolo in fondo al locale
degustando da un appannato bicchiere
il nostro vivere male,
le nostre nere
sincerità.
Tuttavia la voce di Davoli non si vieta mai veramente di interloquire, magari anche ricorrendo all’interrogazione (“Adoperi il quaderno che ti ho dato?”, da Un vizio di scrittura), di cercare una complicità tutt’altro che elitaria o snobistica, ma comunque “per pochi intimi”:
Tra simili ci si conosce al volo.
Si riconosce un tratto, una svista,
i sillogismi del cuore. Specialmente
se poi un’ansia di coprire fa scoprire
le carte, svelare i sogni diciamo così…
Ma è un gioco per pochi intimi e forse
una tacita complicità, destinata
al suo privato oblìo.
That’s all.
(da Una bellissima storia)
La tensione inesausta alla ricerca di un interlocutore è ciò che distingue la poesia di Davoli dalla regressione nichilista, che “elude la tragicità”, di tanta poesia contemporanea. E’ un punto fermo da sempre della sua poesia (“Ma ho fiducia nel gioco/che rimane/ben oltre la partita”, in Un vizio di scrittura), un filo di speranza e un vitalismo nato fin dall’inizio dallo “stupore che provoca l’intreccio di storia e natura, dentro il sublime creaturale – assieme erotico e religioso – dei corpi” (Bertoni). Elemento che lo avvicina a quella che lo stesso Roberto Galaverni ha definito la “linea creaturale” della poesia italiana del Secondo Novecento, cui potremmo ascrivere lo stesso Loi. Una linea che risponde alla negatività esistenziale montaliana con un sì ostinato alla vita, pur non eludendo, da altra prospettiva, la tragicità, facendo i conti con il dolore dell’esistenza senza scorciatoie consolatorie.
Ci sono due testi, Poemetto dell’alba e Dove la roccia non crolla, che testimoniano ancora della resistenza anche civile della parola di Davoli, della sua volontà di permanere pur tra le insidie del proprio tempo e dentro la tragicità dell’esistenza:
Io sto nell’alba come sto nella vita:
fermo su me in attesa del giorno,
guardando scorrere un ruscello qualunque
sotto di me, portarsi via le illusioni […]
Io di qui non mi muovo, anche se penso
che muoversi o non muoversi non muta
la storia, se poi il cuore immacolando
vibra solo su sé, sperso nel cielo […]
Tutto si muove, intorno a me nell’alba,
E tutto tristemente piega e cade.
Se qualcuno gridasse, almeno potrei
da qui lanciare un urlo di risposta,
o una mano protendere, tentando
un abbraccio che superi il saluto,
una presa che regga. Da qui potrei
dare segni di vita, dimostrare
almeno a me che qualche cosa tiene.
L’ipotesi di un contatto, la speranza, pur, in questo caso, dal versante di una solitudine drammatica, che alla fine qualcosa regga, non abbandona il poeta che nel componimento seguente, dall’antologia, torna alla compattezza del “noi”:
…E invece noi
piccole cose che confonde l’azzurro
noi come spuma in fuga sull’oltremare,
su una riva difficile e irta,
dove la roccia non crolla.
Con padano piceno ha termine la prima fase di questa vicenda poetica. Il silenzio che seguirà potrebbe sembrare anomalo per chi non conosce l’autore. Davoli è infatti uno “scrittore” (come ama definirsi, più che poeta) molto prolifico, che scherzando si duole anche di un’attitudine che lo avvicina più a Govoni che al prediletto Sereni. Ma in fondo non credo che questo silenzio, che durerà circa cinque anni – tanto intercorre tra padano piceno (2003) e Gli incendi (2008), poi confluito in Come all’origine dell’aria (2010) – non credo che il silenzio gli sia potuto divenire angosciante, in una dimensione spirituale così profonda come la sua. La necessità interiore che muove la sua parola fa sì che Davoli non abbia davvero mai vissuto con l’assillo della scrittura.
Ad ogni modo il Nostro attribuisce questo silenzio a un senso di saturazione verso le logiche del mondo letterario, e ad una voce dietro la quale comincia ad avvertire troppo il mestiere. Lo scriba vede impuntarsi il proprio strumento di fronte al rischio di una forma troppo manierata. La sua adesione totale, sincera, carnale alla vita non ammette eccessi di letterarietà. A ri-suscitare la necessità della scrittura non saranno in questo caso i prediletti incontri nella biblioteca, le fondamenta, tuttavia, senza le quali non si dà creazione; le accensioni fulminee e il dispiegarsi limpido della sua voce sgorgheranno direttamente dalla parola “nuda” dei migranti a cui il poeta si trova ad insegnare l’italiano, come vedremo nella seconda parte di questo percorso.
L’avventura di Davoli riprende nel 2008 con Gli incendi, esile raccolta che costituirà la sezione principale di Come all’origine dell’aria (2010). Il lettore prenda con le dovute cautele questa divisione in due parti: avrà già notato, infatti, i frequenti rimandi tra una raccolta e l’altra, nonché, dall’abbondanza dei testi proposti, la personale predilezione di chi scrive per il libro centrale, Una bellissima storia. Il ritorno di determinati aspetti non fanno che confermare quanto la scrittura di Davoli, pur nell’evoluzione e maturazione dello stile, si mantenga fedele a sé stessa. Si è detto nella prima parte dei motivi che hanno portato a questo silenzio inusuale per un autore che ha sempre scelto la scrittura, per necessità ineludibile, come viatico per esprimere il suo corpo a corpo con la vita, nonostante questa “ecceda” sempre le possibilità della poesia. Riporto inoltre un aneddoto, da un’intervista, in cui l’autore rivela il suo stato d’animo rispetto al mondo letterario, dopo una partecipazione al Parco Poesia a Riccione, nel 2003:”la maggior parte del tempo l’avevo passato lungo viale Ceccarini a far amicizia con una barbona in lacrime, mentre gli altri – dentro l’aureo giardino della reggia di Versailles – si dedicavano alle filologie più astruse…”.
L’attività di educatore di minori extracomunitari genera l’endecasillabo levigato, quasi petrarchesco, mai così squillante di Come all’origine dell’aria. Con la “festa di parole”, per dirla con Sandro Penna, di questo periodo, Davoli canta la giovinezza rinata della sua poesia: “l’incontro si fa carne” grazie alla parola vergine, nuda dei ragazzi a cui insegna l’italiano. Gli incendi si aprono con la poesia che segue, di cui riporto però la versione ultima, uscita a febbraio 2021 in Dentro il meraviglioso istante, nella sezione delle Riletture:
Nudo. E la nudità che ti distingue
dagli altri crocifissi della Terra
è il sublime ed altissimo vedere
di chi scolpendosi nel legno rinunciava
a ogni cosa di sé. Non hai nemmeno
ferite, solo silenzio
di chi guardando ascolta.
Sei nudo interamente, come la vita
che il mistero compatta negli iniqui dolori,
nei percorsi labili della notte.
Soltanto Tu e totalmente altro.
In questa versione definitiva, espunta in realtà solo di un verso centrale, c’è un’altra lievissima correzione, rispetto all’originale, che terminava con “…Soltanto nudo/e totalmente altro”. Mi piace pensare che Davoli abbia raggiunto la “nudità” semplicemente dicendo Tu a un totalmente altro “spoglio”, in cui riconoscere Cristo. Ed è la poesia e il poeta stesso, in questo senso, ad essere nudo, disarmato di fronte alla grazia. Questa nudità non è diversa dall’umanità del compianto Loi, dal “vèss òm e vèss puèta”, “essere uomo ed essere poeta”, che altro non significa per il gigante della nostra poesia, “essere uomo è essere poeta”: Loi, seguendo i suoi famosi versi, identifica il poeta con l’uomo; in Puèta è un uomo che sa mangiare e bere bene, è un uomo innamorato; spesso è un semplice lavoratore che conserva nel vivere uno spirito geniale (Loi era convinto che qualsiasi uomo appassionato del proprio lavoro fosse, in fondo, un poeta), non ha “la poesia legata dentro”. Così per Davoli la nudità diviene della poesia e della vita oltre la letterarietà del testo: il marchigiano rimane sempre estremamente attento, quasi guardingo di fronte al rischio di un’eccessiva letterarietà nella scrittura, il pericolo di generare qualche “cartaceo imbroglio di buona fattura” (da Una bellissima storia). Ricordo come parlasse della grandezza e “nudità” di Leopardi che nei versi dell’Infinito ha scritto: “E come il vento/odo stormir tra queste piante…”. L’estrema semplicità della parola comune “piante”, non il più accattivante, onomatopeico e scontato “fronde”, come nella lettura erronea di un relatore in un convegno di poesia a cui ho assistito con Filippo.
La rotondità del verso di Come all’origine dell’aria è apprezzabile in Quando il vento si posa oltre la notte, proprio partendo da uno degli incipit a mio parere più felici del Nostro:
Quando il vento si posa oltre la notte
e un canto si solleva lungo i fiumi
tra le erbe non accolte
che dal ciglio di pietra, nell’alveo
che conduce, diresti
che tutto ha un senso,
anche il dolore, anche la morte
che accarezza quel ciglio, che lacrima
il bagliore dell’alba,
fraternità delle zolle, medesimo
sguardo alla luce, al vero.
La carta allora
torna ad aprirsi, un’orma
traccia il camminamento.
Ci interpella uno stesso fluire
oltre sterpaglie basse.
Siamo al culmine della resa poematica di questa scrittura: l’ulteriore maturazione dello stile avverrà in direzione di un’essenzialità di fondo. Dalla raccolta I destini partecipati il poeta sembra asciugare con naturalezza il proprio dettato e costringere il verso su caratteri apparentemente più prosastici. In realtà Davoli dimostra di aver fatto propria la lezione montaliana: attingere al “gran semenzaio” della prosa; o, per dirla con Bertolucci, la sua poesia “finge” di farsi prosa senza abbassarsi ad essa. Il marchigiano non ha mai fatto mistero di prediligere, più che le derive sperimentali vocianti delle avanguardie, le scelte ben più consistenti di Sereni o del secondo Luzi, la colloquialità de Gli strumenti umani o Nel magma o, nella generazione a lui più prossima, di Pagnanelli o Benzoni. Non si tratta dunque di uno sperimentalismo studiato a tavolino: l’urgenza esistenziale dietro l’incontro di questa parola con il mondo è sempre la stessa, che si tratti dell’abbraccio con una barbona, di una sigaretta fumata con un migrante a cui insegna l’italiano o di incrociare un topolino che si aggira curioso entro le mura del centro di Macerata, nella sua ultima raccolta, del 2016, La luce, a volte. La qualità più propria di questa poesia sta proprio nelle straordinarie aperture all’interno di un approccio rasoterra, quasi sabiano, quando il Nostro adotta la prospettiva di un piccolo roditore. Seguendo il precetto di Borges secondo cui ogni autore scrive un unico libro, l’approccio “rasoterra” è lo stesso nel Nostro, che ci si addentri nel retrobottega del poeta stesso (Poemetti del contatto), si accolgano le fusa di “un gatto forastico” (Il Grigione, in Un vizio di scrittura) o le moine degli amati cani (Una bellissima storia) o ancora tra la polvere (padano piceno) e addirittura la pelle morta di un materasso (I destini partecipati).
La disposizione vitalistica che, dicevamo, ascrive a pieno diritto le liriche di Davoli alla linea creaturale della poesia italiana contemporanea, non cede mai alla tentazione di ripiegare su una retorica consolatoria: e forse il mood che intride più a fondo la scrittura del marchigiano a partire da I destini partecipati è proprio quello di chi vive vedendosi “invecchiare giorno a giorno,/brano a brano”, di chi cioè si trova a fare i conti con la fine, personale ma anche come percezione della fine del mondo, di un Apocalisse. Davoli non si rifugia neppure nel rimpianto o in una poesia memoriale: l’orizzonte del suo universo spirituale è sempre il presente, certo non il presente cronachistico di tanta poesia minimale o il sentimentalismo epidermico di soluzioni contemporanee, anche pseudo-poetiche; la ricerca è sempre quella, interiore ma con lo sguardo sempre disponibile all’incontro, allo schiudersi di un varco, un farsi presente alla luce e all’eternità. Si tratta di un nodo cruciale per gli sviluppi di questa parabola poetica: la resa di Davoli è quella di chi saggiamente non ha più paura di invecchiare (“beati, nella calma età che procede”), sa che in fondo è un bene perdersi nel Grande Fiume. L’atteggiamento è perciò quello di un cristiano che coltiva la propria fede, le relazioni e “la vita che non ha nulla di eccezionale…come un piccolo/orto discreto”. Ma in questa sorta di panteismo, la fede dogmatica dell’autore vede chiarirsi la verita’ sempre passando per la vita. La concezione di Davoli non è lontana da un sapere orientale che certamente non ha la stessa spasmodica paura della morte e bisogno continuo di esorcizzarla del mondo occidentale secolarizzato. Il Nostro ricordava anche che lo stesso sapere orientale privilegiava l’udito, l’ascolto; è stato il pensiero occidentale ad assegnare il primato alla vista. Lo si ricordi per il perenne carattere musicale di una scrittura che, al di là di qualche rapido scorcio di provincia, non si è mai diffusa in descrizioni particolareggiate o parentesi affabulatorie.
Ne I destini partecipati il poeta marchigiano non rimpiange affatto, dicevamo, di “non avere più vent’anni”:
Tutto passa, in questa vita. Si avvicendano
anche in noi sentimenti, abitudini
che credevamo insormontabili, e invece…
tutto trascorre inesorabilmente
ed è bene così. Siamo frecce
puntate verso l’azzurrità. Ce ne andiamo
di viaggio in viaggio, di vecchiaia in vecchiaia
verso una giovinezza che non termina.
Oh certo, nell’andare di volta in volta rimaniamo
un po’ di noi avvinghiati agli affetti
e questo è un doloroso fastidio
ma pure qualcosa di noi deve restare
come traccia del vissuto su questa terra.
Tu non dolertene oltre misura.
Il motivo, che ricorre anche ne La luce, a volte, si ripropone esplicitamente nella poesia che chiude I destini partecipati:
Io non ho più vent’anni, grazie a Dio.
Sono già oltre la metà dei miei,
se a cento conto di non arrivare.
E davvero non voglio. Come un fulmine
di grazia, è quest’attesa. Come un turbine
che affatica le pratiche dei giorni
aprendo ad una vista eccezionale.
Lavoro per il mondo che mi attende,
vivo il presente per l’eternità.
Chiarendo il senso profondo del titolo La luce, a volte, possiamo comprendere quanto l’apertura di un varco verso la luce è un bisogno dell’uomo Davoli di aderire all’eternità: non è la luce ad essere intermittente, discontinua, a mancare, è l’uomo, spesso, a mancare l’appuntamento dinanzi ad essa. Lo aveva già espresso, il Nostro, in un passaggio di Una bellissima storia:”Eternamente vivrò, tutto lo dice./E’ viverla oggi tutta e veramente/questa esistenza il guaio…” . O ancora in due splendide Riletture dalla sua ultima raccolta:”Capissi l’eterno/che c’è dentro il presente, dove si compie/tutta la storia del mondo…”; “La vita che non s’afferra/è quella vera che attraversa i giorni,/la vita che s’incarna dentro la vita/come un sigillo di vene”.
Da un punto di vista linguistico la ricerca dello spiraglio, dell’attimo, dell’ “anello che non tiene” montaliano in Davoli la suggeriscono da sempre i frequenti participi e gerundi tipici di Sereni e Benzoni (“Giunto alla stazioncina d’Albania…mangiando/giù dalla carta nobilmente i piatti…/e poi seduto sbivaccato sul divano”, @, in Una bellissima storia), nonchè le iterazioni e i periodi ipotetici (“Se ti incontrassi davvero/al Bar del tempo/forse pioverei nei Tuoi occhi…afflitto come sono dalla smania/di frenare gli istanti/di calarmi dentro la vita (Tu che faresti?)…”, Al Bar del tempo, ancora in Una bellissima storia). Espedienti retorici che hanno proprio la funzione di aderire alla “vita dei nervi” (Bahr) dell’autore, ma soprattutto, come negli ultimi versi citati, di sospendere il flusso del tempo per aprire un varco.
La direzione dello stile maturo, “tardo” (Adorno), di Davoli nelle sue ultime raccolte, è all’insegna di una rastremazione del dettato, un processo di essenzializzazione del linguaggio che è possibile apprezzare mettendo a confronto due testi che parlano di vocazione poetica. Il primo è un esempio dell’endecasillabo sonante di Come all’origine dell’aria: presente nel poemetto finale di quella raccolta, intitolato Figure senza erbario, è stato posto dall’autore al termine del vistoso rimaneggiamento del poemetto stesso, nel suo ultimo libro Dentro il meraviglioso istante. In questo caso l’autore ci parla della genesi del proprio processo creativo a partire dagli elementi, come in un parallelo con la Genesi biblica:
Vorrei che si capisse che è per grazia.
La pagina fu tramite fiorito
del respiro e non altro. Solamente
nell’alone del transito si illuminava.
Oltre e durante ci segnava un vento
che leviga le pietre, un’acqua dolce
che dà forma alle cose.
Io lo dicevo come il dito indica.
L’altro testo ci parla invece di un’essenzialità dirompente prendendo spunto da un concerto storico di Chet Baker a Macerata:
Non serve esagerare con le parole.
Anche le note ne bastano poche, ma vere
l’anima, l’anima…
era Chet che parlava,
lo diceva al giovane sax che riempiva
il soffitto di virtuosismi. E poi lui
lo sterminò con una nota sola.
Un lamento basso, interiore
che ci innalzò al tormento.
Al di là di qualunque tipo di intento apologetico, penso che pochi altri poeti oggi in Italia sappiano parlare in termini così limpidi della propria vocazione alla scrittura.
Così avviene anche nella raccolta che è appena uscita; raccolta massiccia, dicevamo, sempre ricordando però la disposizione del poeta ogni volta che “lascia” alle stampe un’opera, esattamente come si lascia andare libero un proprio figlio nel mondo, senza legarlo ai desideri del nostro ego. Nel caso letterario, quindi, senza pensare ai ritorni di gloria della propria creazione:
Sono uno che scrive. Ci lavoro
spesso di notte o quando viene buono.
E’ un dolore che chiama e che conquista
noi gente strana che ci tocca scrivere.
E servirà? Lo ignoro. So soltanto
che devo. Sono solo un operaio
che la voce ha legato al mondo e agli uomini.
La mia catena di montaggio è un cuore
che ascolta il fondo e lo riporta in alto.
In tempi nei quali si continua a parlare di scomparsa, di dissolvimento delle poetiche, il timbro della voce e l’effluvio musicale di Davoli si distinguono chiaramente, lo stile rimane fedele a sé stesso, per i riferimenti certi alla tradizione. Si pensi, nel verso finale di questa lirica che apre il libro, addirittura all’Ungaretti del Porto sepolto; ma la tensione, l’anelito spirituale che fa sentire il poeta “un tutto che si apre dal suo nulla” scaturisce dall’armonia della vocazione, appunto, più che romantica ispirazione. Nella reverie (non va dimenticata la venerazione dell’autore per il Bachelard di Poetica della reverie) l’autore vede compiersi il miracolo, la propria interiorità in relazione con il cosmo; come se, in termini danteschi, “amor che ditta dentro” e “amor che move il sole e l’altre stelle” vivessero dello stesso movimento. Da questa sorta di panteismo, tutt’altro che idealistico, ma, poiché non elude l’attraversamento del dolore, esistenziale, “carnale”, si spiegano le ricorrenti coppie oppositive di aggettivi (“indomiti e semplici”), gli ossimori, come anche, nelle raccolte precedenti, nel frequente contrasto caldo-freddo (“che bel freddo”). Innumerevoli le voci dei maestri del Grande Novecento convocate in quest’ultima raccolta: il lettore mi permetta di tornare ancora una volta a Loi, seppure il lettore stesso possa individuare altre voci più prossime, sul piano stilistico. Ma ho l’impressione che la complicità con il maestro e amico sia un elemento decisivo della scrittura e di quello “che corre nelle vene” del Nostro:
Affinità non spiega. Si direbbe
scovati entrambi da uno stesso spirito
(o da una similare libertà).
Dentro la tua pupilla o nella voce,
sebbene tutta un’altra l’esistenza,
io mi ritrovo. E sento farsi intima
nella mia vita la tua integrità
Curioso raffrontare la densità e compostezza di questo testo, con la complicità nella scrittura di cui parlava Davoli in Loi di Un vizio di scrittura:
Ma pure le parole, non credi?
ce le abbracciamo a volte come cuscini
ci si fa pure l’amore. Insaputando,
annusando ogni odore…
Sembra perfino di cogliere l’influenza futurista dell’amico pittore, il maceratese Wladimiro Tulli, nelle note ariose e musicali del poemetto dedicato a Loi.
C’è un bellissimo verso di Vinicius de Moraes che Filippo ama ripetere spesso, “la vita, amico, è l’arte dell’incontro”. Non c’è differenza, per Davoli, tra l’incontro con una persona e la grazia della propria vocazione. Entrambi il poeta li riconosce “al volo” e, per usare quegli straordinari versi di Mario Luzi che anche questa volta danno il titolo a una raccolta del marchigiano, “dentro la vita/dentro il meraviglioso istante”. Lo stesso gigante fiorentino aveva definito, nei suoi saggi critici, la voce di ogni vero poeta come “una voce perpetua che ricomincia miracolosamente a parlare in quel punto”; riguardo invece la posizione della poesia nella storia e nella società alla fine del Novecento, aveva parlato di una poesia che “può essere scritta dentro il mondo, non contro di esso”.
Allo stesso modo la poesia di Davoli, nel suo punto di estrema maturazione, mi ricorda uno scritto straordinariamente acuminato di Sereni sulla poesia di Gatto, un rilievo critico del 1938. Sereni era partito da un concetto molto diffuso nell’ambiente ruotante attorno all’Ermetismo, un estratto dall’introduzione di Solmi a Quasimodo:”Il paradosso della lirica moderna sembra consistere in questo: una suprema illusione di canto che miracolosamente si sostiene dopo la distruzione di tutte le illusioni…La favola risorge sul mondo distrutto come un miraggio sul deserto”. Sereni aveva corretto la posizione di Gatto rispetto all’affermazione iniziale, [“modificheremmo (<nel mondo> e nemmeno distrutto, ma irto)”], giustificandola con una serie di elementi, il più preponderante dei quali una disposizione melica, anche nell’uso sabiano della rima, che esprimeva tutta la “simpatia” del verso con il mondo circostante. Spero, con questa suggestione critica, di non incorrere in una forzatura. Mi sembra tuttavia che oltre agli apparentamenti della poesia di Davoli con Gatto e la prima stagione ermetica, come già evidenziato da Garufi e da Tesio, nella magnifica introduzione (i numerosi preziosismi lessicali, come alcuni verbi intransitivi usati in maniera transitiva o non riflessiva, come “brivida”, “meraviglio”); una disposizione, quella con cui Davoli si riallaccia addirittura al Primo Novecento, che Garufi riportava alla prima maniera dell’autore, ai suoi esordi; mi sembra che la “modestia piana” (per usare ancora le parole di Franco Loi per Alla luce della luce) delle sue liriche si confermi nella dizione asciugata e ridotta all’essenziale delle Riletture, la prima sezione di rivisitazioni di versi da precedenti raccolte. Lo stesso si può dire per l’orizzontalità, che non si vieta incursioni perfino dialettali, accanto all’eleganza e ai preziosismi di cui sopra, di una poesia la cui vigile malinconia, diffusa, mai effusa, fa notare giustamente Tesio, consente di non scadere in quel languore contemporaneo tanto deprecato dallo stesso autore, in una conversazione:”Quelle malinconie soffuse, vagamente sognanti, che non prendono di peso né la vita, né la morte. Le parole hanno un peso, una loro profonda responsabilità”. Credo che di questo prendere di peso l’esistente viva perfino la fede cristiana che dà impulso alla voce di Davoli; una fede che riesce tuttavia a non incendiare le leopardiane illusioni e a mantenere quel mondo non “distrutto, ma irto”:
Trema il cuore nel vedere che nulla
ci appartiene nel brulichio del mondo
che obbedisce istintivo al suo trascorrere.
Solo lo sguardo innamorato sazia il fondo
buio della domanda.
Ancora una volta a sancire la maturità della poesia di Davoli è l’ineludibile confronto con il dolore e la morte, che nel poemetto sul terremoto Zirzilah diviene Apocalisse personale, storico e cosmico, crollo anche del proprio universo percettivo, smottamento nel moto ondoso delle sue dolci colline. Non a caso i versi del marchigiano potrebbero far pensare, in alcuni passaggi, alla Bufera montaliana:
C’era gromma nel tubo. C’era terra
nella gronda che squassò la parete
inondandola. Fiorirono erbe.
S’era però in un padiglione antico.
Così vennero recise col fuoco,
perché non gli tornasse voglia
di riprovarci.
E adesso?
Guarda come il muro si sfarina
lo stesso, dissestato dal fondo. […]
A colpi, a brani si scarnifica
la mia terra dolcissima.
Divorata, smangiata,
smagati noi.
Che più ancora, vedendola
indifesa sbrecciarsi.
Il composto lirismo a cui Davoli approda non gli vieta di intrufolarsi tra la gente del suo “rione”; anche in questo caso, come ha notato Tesio, l’autore non nasconde il colloquio con un’altra costante frequentazione delle sue letture, Umberto Saba (vedi anche Domenica sportiva, nella prima sezione):
Le strade. Dove pullula la vita migliore,
la più anonima e indaffarata.
Le strade dove gli uomini si incrociano
e sognano la sera che cala
e li conduce agli svaghi
brevi come durata, intensi nel desiderio.
Poveri uomini, amate spoglie sorelle
che tutti siamo parte del tutto
e gli uni degli altri
ma come è naturale non saperlo.
Un lirismo borghigiano e terragno, che certamente risente della lettura vorace dell’amato Pratolini e sa anche cogliere il carattere profondo del genus a cui è radicato:
Di là dal mare, nella terra antica
segregata tra i monti, sono forti
gli uomini che ci vivono, non temono
nemmeno le pallottole. Nei campi
l’arsura fa da sfondo a quella scorza
che li fa irredimibili.
Terra capriccio che li tiene stretti
ai suoi costoni, ripidi e selvaggi.
Di qua dal mare è diverso ma non dissimile.
Radico nell’aratro come la ruggine,
brillo al canto del sole tra i colli verdi
dove la vita a ogni istante si ricompone.
Guardo il mio oriente, io deposto al margine.
Altrove la lingua dà prova di mantenere il suo equilibrio classico e di aprirsi naturalmente all’idillio leopardiano intriso di un’elegia, una malinconia depurata dal sentimentalismo sfiorato in alcuni esiti precedenti:
Non scampa al rigore
il primo lembo di settembre. Invano
tornano le giornate chiare
ma un brivido acuminato le percorre
e ne allontana il cuore dell’estate.
Le spiagge aperte ormai
alla assolata solitudine, l’acqua
di nuovo impraticabile e gelida.
Se le raggiungi con lo sguardo trema
dentro di te la vita, t’infuturi
nella linea sperduta dell’orizzonte.
E già sei oltre, nei nidi.
Personalmente ritengo che l’obbedienza a una vocazione sia uno degli antidoti migliori al culto del proprio io nella società di oggi e all’eccessivo biografismo che affligge molta poesia contemporanea. Nel suo recente, splendido libro di prose Filigrane, Guido Garufi ha scritto che solo la parola dei poeti ha potuto dare un senso alla propria vita, trasformandola “da sopravvivenza a esistenza”. Non so quanto possa essere valida quest’affermazione anche per Davoli. Credo comunque che al “claustrofilico” reveur marchigiano vada riconosciuto il coraggio di credere in un amore, un’umanità, una relazione che in quanto autentici non sono mai privi di rischi. Nei tempi cupi in cui viviamo il fiorire ogni volta limpido e necessario della sua voce mi sembra una delle testimonianze più feconde di una parola che attraversa il dolore della Storia senza rivoltarsi contro il mondo e senza maledirlo, ma restituendosi nel martyrion, nel sacrificio del proprio io, riesce a farsi docile strumento della Grazia:
Voi che passate sulla mia piantagione
di erbe figlie della mia muscolatura,
calpestatemi ricordando che tutto passa,
che ogni forza tracolla, che spanta
sparge il seme la fortezza diroccata.
Non vi colga di sorpresa quando arriva
la rovina. Siate indomiti e semplici.
Giungete al nostro riposo con dentro la pace
e vi sarà delicato l’arrivederci.
(in “Nuova Ciminiera”, www.nuovaciminiera.it, 26 maggio/2 giugno 2021)
*
Dentro il meraviglioso istante
introduzione di Giovanni Tesio
Non so bene perché, ma mi torna alla mente, per questo libro di Filippo Davoli, un testo dolcemente evocativo di Valerio Magrel-li (Miracolo della dolcezza), che apre la sezione Paesaggi laziali della raccolta Il sangue amaro. È dedicato alla memoria di un antico compagno “nella galera dell’adolescenza” ed evoca una vita a rovescio che genera – nella memoria – la nostalgia di un incontro. Riuscendo così affine ai due versi che giudico – tra tutti – misteriosamente esemplari: «Dov’è la libertà, se la malinconia/ raccoglie le sue nuvole senza nessun perché?».
Non ho “perché” da vantare qui, se non che questo testo – non sto proponendo dipendenze – contiene parole e sentimenti che sono così prossimi all’opera in generale di Davoli, e in particolare all’opera ultima, Dentro il meraviglioso istante. Libro di dolcezza e grazia diffuse (effuse mai); libro di vigile nostalgia, ma nostal-gia non tanto o non solo del ritorno, riconosciuto tema-chiave, e piuttosto di alterità, di assoluto, di quotidiana collocazione e di cosmica congiunzione («il cosmo lieve delle mie giornate»), di fusione («Siamo un costrutto di attimi«) che non esito a defini-re spirituale, ricordando come Franco Loi abbia fin da principio obliquamente parlato di “atteggiamento mistico”; libro, ancora, di malinconie variamente declinate («e un filo di malinconia quasi mi tiene»), che la presenza frequente di nuvole e “nuvolaia” trasforma e dissipa (i tanti sfarsi e disfarsi), alleggerisce e incanta «senza nessun perché» (ma anche, in un testo specifico, il notevole paragone: «Sono amiche, le nuvole. Come i morti/ che ammiccano e dispaiono/ e tu le guardi volare, librarsi/ sospinte da un loro vento invidiabile»); libro, infine, di comunione e di comunità, capace di convocare nei suoi incontri i giorni e i luo-ghi, il trauma del terremoto, il padre e la madre (figure – timone), la non carducciana nonna, gli amici e i parenti, i vivi e i morti, le persone frequentate e le persone più casualmente sfiorate.
Comunità di luogo, ma comunità altresì “degli animi”, secondo una vaga assonanza sabiana (un meno egoico Saba borghigiano), in un componimento che ha tutta la nitidezza un poco gnomica dell’elegia pensosa, dell’incisione povera, elementare, espressa in forma quasi spoglia, quasi disarmata, e aggiungerei ingenua, ma nel senso etimologico di “libera”: «Le strade. Dove pullula la vita migliore,/ la più anonima e indaffarata./ Le strade dove gli uomini si incrociano/ e sognano la sera che cala/ e li conduce agli svaghi/ brevi come durata, intensi nel desiderio./ Poveri uomini, amate spoglie sorelle/ che tutti siamo parte del tutto/ e gli uni degli altri/ ma come è naturale non saperlo». Ma si veda poi l’elogio maceratese che chiude senza perplessità e di-stinguo: «Bella anch’essa da viversi/ la gente del mio rione».
O anche l’incontro con la donna dell’ombrello aperto sotto i portici: «Era invece un abbrivo di quelli miei soliti/ quando indugio per le strade del mio quartiere».
Non tutto è ovviamente riconducibile alla pretestuosa citazione da Magrelli, ma riconducibile di certo è a una vocazione mai smentita, che fa dire allo stesso Davoli (se ne veda la piccola nota dell’autore): «Che chi scriva sempre lo stesso libro è attendibile, così come si vive – pur nelle svolte che la ricominciano – la medesima vita. Cambiata di tono, arricchita dall’esperienza, con-vertita, ma il fondamento rimane quello che l’ha originata».
Sottile distinguo, tuttavia, perché – pur nella continuità del fare – non si nega qui né la variazione dei tempi né la variazione dei toni. Come a dire che la vita ha i suoi punti di stazione e di svolta, di continuità e di diversione (o, stando allo stesso Davoli, di con-versione, nemmeno escludendone la religiosa piegatura: “Andiamo, il giorno è alto”), ma che anche l’opera ha i suoi passaggi, le sue transizioni di lingua e di stile: il tutto in tratteggio di paesi, in incanti di profili, in lungimiranza di prospettive, in allusività di confini.
E se devo dire subito, subito dirò che quest’ultimo libro di Davoli mostra più di tutti i precedenti un meraviglioso equilibrio di scrittura che è frutto, giustappunto, tanto di esperienza vitale quanto di esperienza “formale”, anche perché non si cada nell’equivoco di una scontata “facilità”, o per dir meglio, “sem-plicità”, essendo sempre insidioso il vantaggio di ciò che non èche semplice («Dentro la vita semplice, così è scritto»). Inutile osservare, se non per preterizione, che ciò che è semplice non significa facile.
Cosa, del resto, che il poeta sa dire in maniera evidente con l’ausilio di un’affinità congeniale come quella di Bill Evans, il pianista jazz, e della sua nuova – inventata – “armonia” (ma anche il contiguo Fauré…): «Se tu fossi qui, in questo preciso frangente/ nella quiete esplodente di Bill Evans/ – sempre lui, non c’è affanno che vinca/ la grazia – ti illustrerei/ che sapienza di intrecci in quelle note/ che sembrano piane e invece…».
Non c’è forse tutto qui, in termini allusivamente meta-poetici? Intanto c’è la quiete esplodente che è un ossimoro. Poi c’è il sempre lui, ma anche l’affanno che non può vincere la grazia, altra parola di alta frequenza in Davoli. E infine ci sono le note «che sembrano piane e invece…», con tanto di avverbio oppo-sitivo e giunta di aposiopesi, ossia di una sospensione che dice tutto. Potendo il tutto ben valere come modello interpretativo dell’opera stessa di Davoli.
Due le modalità che in una si congiungono. Da una parte la definizione del mondo – dell’universo – di Davoli: la sua collo-cabilità, la sua collocazione, la sua “residenza” (parola ben incardinabile in una poetica di marchigiana estensione); dall’altro la sua dizione, la sua pronuncia, il suo rapporto cosa-parola, la sua scrittura.
Se badiamo alla prima modalità, non si può sottacerne l’origine nella “terra delle armonie”, la dolcezza collinare del Maceratese e del Fermano di contro alla maggiore asprezza dell’Ascolano, indugiando su declivi che sanno di maternità, su colline tonde e smussate («Tu, moto ondoso delle mie colline,/ mare d’erbe dolcissime»): ulivi radi, casali sparsi, terreni petti-nati di ocre e di marroni intrecciati ai verdi teneri, ai verdi pa-stello, all’azzurro mosso e variabile di un mare che in Davoli è presenza materna e paterna, prossimità e lontananza, orizzonte e confine che sale più che leopardianamente all’infinito, come in uno degli interludi in prosa poetica; proprio quello che principia: C’è armonia nel mondo e che a un certo punto dice: “radice, identità, appartenenza, sigillo supremo dell’umano; finitezza che cerca in sé l’infinito; precarietà che anela all’eterno partendo dalla propria realtà”.
«Capissi l’eterno/ che c’è dentro il presente», dicono due mezzi versi di un testo della prima parte, Riletture. Così come l’altrove sta nel dove, che lo suggerisce. Tanto nel felice contraddittorio con Rondoni: «Caro Rondoni, se dunque come credo/ la nostra ricognizione si assomiglia/ ed altrettanto però prende distanza/ forse lo devo alla pianura che abiti/ e al moto ondoso delle mie colline». Quanto nell’apparente frivolezza del rinvio a Mina – dell’amatissima Mina –: «Sei sempre oltre, nella levità». O ancora, con diversa estensione e religione, come nel rinvio a Matteo Ricci – il grande maceratese indipeta – che mi fa pensare al libro di Gian Carlo Roscioni, Il desiderio delle Indie: «Amare/ l’attimo prima dell’attimo di andare/ stringendo in un istante d’assoluto», con quel che segue nel quadretto famigliare e nell’ossimoro finale del silenzio «che scalmana/ dentro uno sterminìo fitto di grilli». Così contiguo al compatto ristare di baleni del testo immediatamente successivo.
Chiara in Davoli anche l’appartenenza poetica – dall’amico Pagnanelli all’amico Garufi passando per il critico e poeta fermano Alvaro Valentini – che evidentemente non rinuncia a ben altri affratellamenti e alunnati, se sono stati pronunciati a più riprese i nomi di Luzi, di Sereni, e persino persuasivamente di Fortini (ma io aggiungerei in qualche anfratto, anche un meno chiuso De Signoribus, e in qualche cadenza ritmica in qualche lessicale localismo, un calviniano Piersanti). Luzi, certo, il mae-stro dichiarativamente prediletto, ma – nella sottolineata diver-sità di voce – anche Franco Loi, per via di una integrità segreta-mente concorde, che va al di là delle immediate parvenze.
Ma siamo con questo alla seconda delle modalità, vale a dire la scrittura. Una scrittura che incide la parola con limpido bulino cercando di sollevare, sì, il quotidiano a misura d’eterno, ma anche il meraviglioso istante del titolo al fuoco della sua altrettanto meravigliosa controversia, che soltanto nell’ossimoro si compone. Questione, va da sé, che è sempre di “parole”, se vero è che le parole «sono loro che ogni giorno inventano il mondo».
E allora quali le parole? A quali discendenze? A quali dettati? Intanto parole che non fanno salti, e che appartengono a una koinè poetica sideralmente lontano da ogni babelismo più o meno mitragliato. Parole, quindi, chiare e per lo più consuete che di tanto in tanto s’inarcano in qualche lieve preziosismo oppure attingono a un repertorio di voci locali, legate più a una diversa pronuncia che non a un lessico divaricato. Parole, pertanto – e parlo di quest’ultime – che fanno macchia leggera, consentono a volte (lo ha notato ancora Franco Loi per il Davoli d’esordio) con una specie di ermetico strascichìo (il primo Luzi, intendo, poi plurimo e diverso, ma anche il Gatto più attento ai risvolti sociali della sua sempre sensuosa dizione).
Nei testi di Davoli, sempre e sempre più, a prevalere è l’immediatezza della comunicazione, il primo livello di una scrittura che procede dall’occasione e che mira a una referenzialità ineludibile, ma che in qualche caso anche passa attraverso una potenzialità analogica che si manifesta in salti mitemente quantici, riconducibili a più assorte atmosfere di ascendenza remotamente ermetica (un ermetismo postremo e profondamente rivissuto e ri-usato). Per un verso, quindi, l’incidenza connaturale di un calibratissimo ductus prosastico; per altro verso l’addensamento di un dire più enigmatico e interrogativo, più sinteticamente poetico.
A farne fede anche il lessico che nella sua consonanza a tratti persino dialettale, ci parla di consuetudine e di “normalità”, e che tuttavia s’intride a tratti di parole e modi segnalabili per la loro preziosa rarità (rigagno, pomario, brivida, meraviglio – d’uso non riflessivo -, cupore, rancura, s’abbuia, intorta, scrimolo, divieta, obiurga, malure, famuli, viridando, si raccorcia e così via), quando non, addirittura, di parole che paiono convocare una per altro lesta e consustanziale intenzione espressionistica: «V’è l’estro che dipana/ dall’emisfero destro, l’altro aggruma/ ciò che dall’uno scrolla. Disti e torni/ a te da te». O più ancora: «In un balzo fu uomo e ti conobbe/ lì dove il cuore èrgota e s’azzurra,/ s’abbruna il sangue e srondina. Ma alta/ ne è la gazzarra, rimontante il botro./ Un esplodere d’acque tra le giuncaglie/ e il formichio./ La luna ti recinta dentro il buio».
Lirica ed elegiaca per eccellenza, la poesia di Davoli – nella sua grazia e nella sua levità, nella sua mitezza – ci invita alla sua voce, che nella continuità del suo farsi e del suo dirsi sa racco-glierci nell’alta consolazione della parola che vibra di verità, che nella prospettiva orizzontale dello sguardo addomestica – con la sua dolcezza collinare – il profitto della più ardua altura.
L’ISTANTE MERAVIGLIOSO
di Guido Garufi
Dentro il meraviglioso istante è il titolo dell’ultima fatica letteraria di Filippo Davoli. Fatica per chi non è poeta autentico perché, al contrario, chi lo è , non sente affatto la scrittura come “lavoro” ma più semplicemente come vocazione, meglio ancora come “necessità”. Davoli ne ha scritte molte, di raccolte di versi, a partire dal suo primo lepido libello che fu In epigrafe, ben trentacinque anni or sono. Lo ricordo bene perché fui io il prefatore e mentore.
Davoli giovane si dava da fare, ricordo il suo gemellaggio con Remo Pagnanelli, le interviste a casa sua (di Remo), i dibattiti alla Radio. Insomma, Filippo è uno che si è dato sempre da fare, si è “mosso”, anche e soprattutto nella nostra Macerata: i readings di poeti importanti presso il cortile comunale, l’intervento di Arnoldo Foà al teatro Lauro Rossi, la convocazione di Franco Loi, la realizzazione di una rivista cartacea, “Ciminiera” , che assemblò, ai tempi, letture trasversali (anche in campo musicale e pittorico) ed oggi, che va di moda internet, l’ottima rivista “Nuova Ciminiera” che considero elegante e ficcante per gli articoli mai descrittivi ma sempre densi e pensati, con l’assemblaggio di una nuova generazione di voci e di critici (questo è sociologicamente fondamentale).
Qui si dirà: e il libro “novissimo”? La sede giornalistica non è spazio di approfondimento, ma piuttosto di notizia articolata. Del resto altri, e da tanto tempo, hanno parlato delle sue opere, nel segmento offerto ai libri: dal “Sole 24 Ore” a “Il Tempo”, la RAI, “La Stampa”, “Avvenire” ed altre testate nazionali. Oggi la nota che precede il libro è dell’amico professore Giovanni Tesio, mio sostanziale coetaneo, meticoloso e puntuale. Tesio non è “uno” che “parla e scrive a caso”, come del resto Massimo Raffaeli (nel libro che precede questa novità). Oggi mancano critici che vadano oltre le 15 righe del giornale, oltre la notizia ben scritta ma applicabile a qualsiasi autore (io stesso ho fatto un test e ho scritto ironicamente su tale “moda”). Questo “meraviglioso istante” di Davoli è affiancato da una breve notizia di Davide Rondoni: secca ma esplicita, come da parte di chi se ne intende. Vediamo meglio cosa sia il “meraviglioso” e quindi “l’istante” e, più di tutti “dentro”. Esiste (ci sono saggi a proposito) una “semantica del titolo”. L’istante è il “momento” durante il quale si accumula l’emozione (e-moveo, cioè “entro in movimento”, parto, mi sposto da…); questo istante fulmineo e pulsante è il “tempo” della poesia che ha bisogno di questa “base” elettrica ed illuminante: fase breve, intermittente (come le pulsazioni del cuore). Ma si deve entrare “dentro” questa emozione perché lo scriba applichi al foglio le parole e distenda la mano. Da tale “interiorità” (dal di dentro, voglio dire) si parte; senza questo “vissuto”, senza l’ausilio di tale “concentrazione”, non si può scrivere, non si scrive, non si è autorizzati a scrivere.
Ma attenzione. Senza entrare nello specifico dei singoli testi (la raccolta è massiccia, con le sue 140 pagine) aggiungo questa riflessione relativa allo stile e lingua di Davoli, da sempre – e in questa stazione del suo viaggio ancora di più – fedele a se stessa. Ci troviamo di fronte ad un linguaggio piano, apparentemente “descrittivo”, probabilmente atonale, mi verrebbe di dire, impropriamente, “orizzontale”. Ma vediamo più da vicino. La colta ed autorevole lingua è tale anche perché si legge, non solo tra le righe, il fertile rimbombo-rimando a maestri del nostro Novecento. Voglio dire che la seconda condizione per “scrivere” proviene solo e solamente dalla ininterrotta lettura di testi altrui. Dunque la letteratura (la poesia nel nostro caso) come bussola per il proprio “alfabeto”. La prova-provata di quanto sto almanaccando sta nel prelievo di termini propri del secondo ermetismo (non quello cadetto), penso alla Barca di Mario Luzi: terminologia illustre ed emblematica, forse araldica. Ma Davoli nella sua “discesa” sulla storia e sul quotidiano, si sente attratto dalla storia, dalla storia da “raccontare”, tentando più di una volta la convocazione verso l’Alto, lo sguardo verso l’Alto. Se posso aggiungere, concludendo e riflettendo sulle clausole, vale a dire i versi finali dei singoli componimenti, ci leggo ancora la traccia indelebile del primo libello (“In epigrafe”) del quale ho parlato: le clausole sono gnomiche, pedagogiche, mai sospensive; tentano una finta chiusura, tentano il giudizio sul mondo e sulla storia. Eredità, questa, totalmente montaliana; più brevemente, la poesia come memoria ma insegnamento.
(in “Cronache maceratesi”, www.cronachemaceratesi.it, 7 marzo 2021)
L’inquieta luce contro le convenzioni
Filippo Davoli, La luce, a volte, Liberilibri, 2016
di Davide Rondoni
La poesia di Filippo Davoli ha acquistato nel tempo una autorevolezza che viene dalla vita, da una acquisita naturalezza con cui la esperienza diviene voce poetica condivisa senza pagare pegno o chiedere autorizzazione alle idee correnti di letteratura e poesia. Le traversa, con libertà e disincanto. Tutta protesa a cogliere un nucleo di verità – di luce- nella sua esperienza e nel vivente, drammatico e feriale, che la tocca e abita.
Questo libro, abitato da una lingua italiana pulita da ogni ridondanza, povera e ricca, ci porta al seguito del suo sguardo vivo e inquieto sulle memorie e sui segni del presente. Il paesaggio – luoghi, animali – non è mai un tema ma, interiorizzato e pur vivido, quasi un tono musicale, inconfondibile, di una marca tra mare e cittadina di provincia.
Tutt’altro che un libro quieto e pacificato. La stessa sconnessione drammatica del titolo, che riprende – come nota Massimo Raffaeli nella esperta e acuta prefazione- un tema ricorrente fin dal principio di questa vocazione poetica, la presenza della luce. Che qui, appunto, si fa movimentata, spezzata, nel tempo e nello spazio di incontri, di presenze riemergenti, di visite, di segni artistici – altri poeti, musicisti- e di quella Presenza che della luce è volto e richiamo. Ma in queste pagine di versi, tra i migliori oggi in circolazione, mi pare si aggiri uno degli spettri della nostra epoca. Qualcosa che rende un libro, che tende in molti momenti alla elegia personale e memoriale, un chiodo piantato nella carne viva della nostra epoca. Poiché la luce, che a volte tocca e si mostra nelle piccole grandi rivelazioni del vivente, qui sembra a mio avviso concentrarsi su due elementi: la coscienza della appartenenza, ovvero, come si vede nelle belle poesie sulla figura materna e in quella struggente dell’ultimo saluto al padre, la consapevolezza di una necessaria riappropriazione di una figliolanza senza la quale all’individuo (parola sterile ormai) nessuna generatività può accadere. Il libro, non a caso, procede in una sorta di verifica sulla strada compiuta, rimirando anche possibili alternative sfiorate, altre figure che il poeta avrebbe potuto essere. In questa sorta di certificazione del presente, conta anche – non casualmente- l’interrogazione radicale intorno alla realtà di amici suicidi, di scelte avvolte in una ombra incancellabile. Sembra quasi che Davoli in questo libro debba regolare dei conti – quelli che non tornano mai- intorno al tema della sua speciale vocazione di poeta e padre senza legami carnali. Conti serrati e tesi, dove la protagonista torna a essere lei, la innegabile luce, la sua presenza drammatica e movimentante destini. Inutile rievocare la triade di poeti marchigiani maggiori recenti (Piersanti, Pagnanelli, Santori) che per vie diverse ma vicine proseguono la ultramoderna ricerca leopardiana del punto di connessione tra la natura e il destino (quella “intersezione” occupazione da santi, diceva Eliot – e forse sarebbe ora di scandagliare la non casuale compresenza in una unica terra di tanta santità e di tanta poesia). Inutile rievocare perché Davoli porta il suo percorso a un punto di radicalità che appunto appartiene solo alle maggiori esperienze di poesia del Secondo Novecento italiano e del presente. Lo fa nella libertà delle acquisizioni e degli interessi mai slegati da una concentrazione potente. Così si può in queste pagine trovare un piccolo capolavoro intorno alla vocazione artistica (nel breve dialogo tra Chet Beker e un giovane sassofonista virtuoso) come una pennellata sugli aperitivi in una piazzetta di provincia, o versi sospesi tra storia e mistica dedicati a un approdo a San Fruttuoso. Il mare, certo, torna, e porta sempre più in là la quiete e inquietudine dell’animo del poeta. E, come già aveva visto Baudelaire, il mare è specchio di abissi, di salinità, di ondosità. Libro di assoluta sincerità, non al livello poco interessante, della biografia, ma a quello più ardente e drammatico della vocazione. Con questo autoritratto senza concessione alcuna alla esposizione narcisa di se stessi, il poeta Davoli offre un contributo rilevantissimo alla natura della voce poetica contemporanea. E, per questo, va contro una serie di luoghi comuni del nostro tempo. All’epoca narcisa infatti oppone la diminuzione di sé, alla vacuità sul contenuto della propria personalità oppone una ferialità pensosa circa la vocazione e la appartenenza, e infine, la castità di una relazione con il mondo invece che una ansia di possesso e di prestazione.
Di questo gesto, fervido e radiante, la comunità segreta, sparsa e varia dei poeti e dei lettori è grata.

Gianni D’Elia – Alla luce della luce (1996), in “Hortus” n.20, 1997

Questo di Davoli è un canzoniere di brevi poesie di intensa ragione esistenziale. I motivi della scrittura sono sempre occasione di perlustrazione di luoghi, interrogazione di incontri, vaglio di memorie. Il verso è per lo più tradizionale, ritmato sulle nove-undici sillabe fino all’ipermetro di cinque-sei accenti. A volte, la descrizione di persone e situazioni ha forse a modello una lingua chiara, alla Saba, con piccole inversioni. Altre volte, un certo espressionismo govoniano colora il conflitto interiore, di strani apporti dialettali o paradialettali: “Un risomiglio di luni appicciate”, “d’ombre puntite”, “uno stutarsi di luna”.
La poesia più programmatica del libretto si intitola Camera con svista, metaplasmo ironico di un famoso libro e film, ed è una dichiarazione tardomontaliana di fiducia nell’attimo rivelatore (il famoso “Quando un giorno…” dei Limoni, di fuoriuscita dall’inerte fissità dell’indifferenza quotidiana: “Poi a un tratto forzare l’uscio, darsi / una fessura sul mondo, sollevarsi / di peso in uno scatto / che vinca il vuoto e superi lo stallo”. Il titolo del canzoniere, Alla luce della luce, è in questo senso una specie di preghiera di uno stato non inautentico, trovando nella sua conclusione il canto alla madre e alla vita che non muore del figlio. Pare una soluzione religiosa a una crisi, che continuamente interroga il senso della vita e della poesia nella vita.
Finalmente, tra i quasi esordienti marchigiani (Davoli ha già pubblicato tre raccolte, a partire dal 1986), una voce che non sposa la religione delle lettere. Amico di Remo Pagnanelli, Davoli sembra raccoglierne il complesso confronto con le ragioni ultime, senza però quel peso di iperletterarietà e di disperazione conseguente tra poesia e poetica, tra ispirazione e intenzione. Il dramma che era in Pagnanelli dramma della scrittura e del personaggio costruito al suo interno, ora con Davoli si muta in dramma vitale, dove la vita è più grande della letteratura e non va sacrificata all’epigrafe di sé. Sentendolo parlare a Macerata, nel decennale della scomparsa del concittadino Pagnanelli, mi pare di avere colto in Filippo Davoli un’intensità e un’umiltà rare, nella dichiarazione di una strada tuttora in corso, iniziata dopo Remo, diversa da quella di Remo. Senza far torto a nessuno, in questa che non è altro da un’amichevole testimonianza, la poesia di Davoli mi pare un atto che meriti ascolto nell’ambito della nuova poesia marchigiana (e, naturalmente, italiana). Il sottolineare il luogo di partenza, infatti, non squalifica il dato generale, ma anzi lo rafforza di una carica particolare, locale, “appartata e policentrica” allo stesso tempo. In fondo, a partire dall’80, anche a giudizio di un critico come Gian Carlo Ferretti, le Marche hanno rappresentato per la poesia italiana un serbatoio di idee, riviste, voci di autori, notevolmente significativo.
Tra gli autori degli ultimi anni, mi pare che Davoli rappresenti una voce vera, che possiede in più il distacco dalla letteratura come feticcio, la ricerca di altro, nella vita e nella parola. Non pare poco, in un tempo di manierismi e culti novecentisti di ritorno; anche perché la scrittura di Davoli non è ingenua (basti segnalare la catena di ripetizioni, in funzione ossessiva, alla Sereni: “vuoto nel vuoto”, “di te stessa me”), anche per certe immagini concrete che si vogliono surreali, di grande dinamismo immaginativo: “Talvolta, tra le serpi in convuldione / appare un rado stormo di ginestre”.
E vorrei anch’io, come un lettore implicato, accogliere i versi di Davoli come una promessa di comunicazione ulteriore, di rottura dei legacci istituiti, di rivoluzione non approssimativa: “fammi sapere che s’è aperto un varco / stabilito un contatto / che un guscio s’è dischiuso. / Alta la voce e poca / e vera.”
Guido Garufi – Filippo Davoli, in La poesia delle Marche. Il Novecento, Il lavoro editoriale, Ancona, 1998

Filippo Davoli presenta nel suo percorso poetico la strategia dell’equidistanza tra esperimento prosastico e tensione musicale. Nelle prime prove (In epigrafe, 1986) la scrittura gira ancora sul taglio epigrammatico, strutturandosi persino su blocchi aforismatici e denunciando, tuttavia, la sua “cadenza” in nota che si fa più palese nelle raccolte successive Mal d’auto (1990) e Poemetti del contatto (1994). Scrittore “ideologico”, nel senso maturo e aperto, cosciente – come ha rivelato in diversi interventi critici e in interviste – del fatto che non si debba abbandonare il senso e il messaggio che spetta alla poesia e che la riguarda, per così dire, ontologicamente. Lingua poetica, allora, e lingua per gli altri si accorpano nelle raccolte sopra citate in un convulso (ma freddissimo quanto a lessico) circoscrivere gli eventi apparentemente minimali elevandoli al rango di occasioni universali. È la traccia che si scorge nelle impietose diagnosi di una vita “provinciale” (è insistente e quasi ossessivo l’uso del repertorio urbano, con le sue mura restrittive, con le sue “ripetizioni”, con la sua falsa comunicazione e i riti delle borghesi educazioni). Ma qui il testo sembra dirigersi “anche” verso un altrove, un altro orizzonte capace di sorpassare il sequestro (si noti, in particolare, l’ascendenza-tematica-leopardianmontaliana nella esegesi del muro e della siepe da parte di Davoli che produce una galleria di analoghi luoghi clautrofobici e occlusivi: dai vicoli, a certi impervi percorsi dentro la sua città). Resta la voce che sembra isolata e che invece resiste imperterrita, inappagata (Manescalchi) e ancora capace di interloquire: ne sono una spia le numerose interrogazioni e la tensione ironica e parodica che costituiscono il filo rosso, fin da In epigrafe. Se la gnomica e il verso basso e la musica altrettanto “pianissima” avevano la facoltà di strutturare una critica della economia cittadina (che è metonimica e analoga rispetto a quella del mondo), così la libertà di Davoli e il superamento dello stallo si esercita – a partire dalla terza raccolta fino Alla luce della luce (1996) introdotta da Franco Loi – nell’esercizio di una nuova “ritmica” e nell’andamento e impostazione (si vedano alcuni incipit) vicinissimi a Sereni: musica d’angeli che porta persino ad esiti vicini all’oltranza (Loi) o sforamenti e riprese della voce sempre più liberata dalle pastoie (e dalle cripte) del suo labirinto cittadino. Quanto più se ne distanzia, tanto più quella voce diventa persuasiva e il colloquio alto e commovente.
Paolo Ruffilli – Un vizio di scrittura, in “Hortus” n.23, 2000

Nella produzione poetica di Filippo Davoli c’è una costante ricorrente, che è anche la cifra inconfondibile della sua poesia: un’interferenza continua (decisamente produttiva) del pensiero sull’immagine, che si traduce formalmente nell’andamento piano, nel tono discorsivo, dentro l’intenzione lirica. Si potrebbe dire, in altre parole, che c’è una sorprendente attitudine, in Davoli, a tradurre il dato filosofico-riflessivo in immagine poetica, se ciò non rendesse in qualche modo spicciativa, e dunque non esauriente, l’indicazione. Vero è che la vena riflessiva e quella filosofica della poesia di Davoli determinano un tessuto poetico che, oltre l’immagine di cui è fatto minutamente, fonda il proprio retroterra di idee che generano parole.
Esemplarmente il processo si rilevava in Alla luce della luce (1996), e di nuovo appare evidente nell’ultima raccolta di Davoli, Un vizio di scrittura (Stamperia dell’arancio, pp. 112), che deve essere considerata senza dubbio un’ulteriore messa a punto nella direzione della maturità espressiva. E degni di particolare attenzione, tra gli ultimi versi, sono quelli che Davoli chiama appunto Un vizio di scrittura, paradigmi addirittura di un complesso modo di concepire e di strutturare la poesia; dentro ed oltre le citazioni, occasioni perfino laboratoriali di poetica applicata.
La disposizione di Davoli alla poesia è tra le più rigorose, sul piano delle premesse (lo osservava anche Franco Loi, nella prefazione a Alla luce della luce); nasce da una visione di distacco e di misura, nella partecipazione e nel coinvolgimento. Il far poesia è, per lui, ironicamente quanto basta e senza rinunciare intanto all’adesione, l’occasione per catturare qualche segno e imprigionarlo come in una ragnatela che ne trattiene forma e intensità; nella visuale illusoria dell’egocentrismo e nell’inganno di un’autoliturgia sempre incombente, certo (Davoli se ne rende perfettamente conto), ma anche nella consapevolezza materializzata della parola, traduzione sensibile di un rinobilitato impero dei sensi pronunciato a piene lettere.
Come dicevo, sono le idee e i pensieri a decidere della poesia di Davoli; nel segno di quell’urgenza esistenziale che è la radice dei temi della sua, come dell’universale riflessione: il tempo e la memoria, la vita e la morte, il di-qua e l’aldilà, il sonno e il sogno. In una congiunzione continua di attivo e passivo, esemplare di quella carica creativa che sempre balena, in Davoli, dall’esperienza pura e semplice; di quella scintilla di comprensione infinita che si sprigiona dal finito e dall’indefinito. Tornando alla metafora della matassa, il modo di Davoli è quello di svolgere il filo delle parole dall’imboccatura stretta di un imbuto a quella larga: un continuum ritmico-sintattico, per ottenere in chiave lirica il fluente esito del parlato e, insieme, l’effetto insinuante della dispersione a macchia d’olio.
Maria Luisa Spaziani – Filippo Davoli, in 7 poeti del Premio Montale 2001, Crocetti Editore, Milano, 2002

Ad apertura di pagina ha fermato la nostra attenzione per il suo talento aforistico, per l’economia del verso, la concentrazione dell’immagine e del senso: “Eppure si tratta di vita. Non c’è nient’altro.”, e poi: “È dolce anche sparire, // io credo”, fulminante e materna l’ipotesi sulla morte della poesia: “Forse proprio quando meno lo sospetti // il fiume si apre in falcate di cenere…”, e indimenticabile la contemplazione illuminante della vecchiaia, con il suo prezioso chiasmo finale: “Invecchiare così è morire vivendo. / Essere morti vivendo è un’altra cosa”. Quando un poeta come Davoli scende in profondità, tutto, comunque, irradia vitalità e giovinezza.
Leonardo Mancino – padano piceno (2003), in www.agliincrocideiventi.it, 2004

C’è davvero, nella poesia di Filippo Davoli, un disegno soprattutto in termini morali e formali (e linguistici); un autentico cammino evolutivo della sua poesia, che è civile, religiosa, giusta di toni e di modi, lirica come ancoraggio nella classicità.
Una parabola evolutiva, dicevo, che va colta in una sempre più razionale acquisizione rispetto alle prime raccolte, dai dati della realtà storica ma anche personale del poeta stesso. Nel medesimo tempo, al primo lirismo (Alla luce della luce, soprattutto, e Un vizio di scrittura: nel frattempo è intervenuta la dolorosa morte della adorata madre) fatto tutto di intermittenze del cuore, si costituisce una ironica componente fantastica che gli permette un sempre maggior controllo del momento puramente lirico, nonché di una sempre mossa varietà ed intensità poetica.
Nel nuovo libro di Davoli, padano piceno, (libro totale, di poesie tutte eccellenti), segnalo tuttavia due testi: Il sigillo e Il viaggio di poesia. In sostanza, ho letto in esse un tormentoso senso di responsabilità sociale: Davoli confessa sempre un acuto e cristiano senso di colpa convinto e condiviso con l’altro da sé. Precocemente consapevole del ruolo che compete agli intellettuali, Davoli considera la poesia “luogo e strumento di rigorosa ricognizione della realtà, nonché di esplorazione (e di elaborazione concettuale) dell’ambiente urbano (Macerata, come pure la nativa Fermo o la paterna Carpi), in cui agonizza con i propri vizi, pensieri e sentimenti.
Nella città e nei suoi reticoli, l’inumano benessere contribuisce ad acutizzare i quotidiani disagi e malesseri: e il poeta non sa (o non vuole scegliere) la collocazione più giusta per sé: padano o piceno?
Ma a che serve saperlo o volerlo? Il mondo è tutto in tutto, nel tanto male, nel poco bene; e se bene c’è, è quello che si fa e si testimonia nonostante tutto. Davoli ormai sa (e conosce) che aspirando a beni quasi esclusivamente materiali il tempo si consuma in un’alienazione endemica.
Per lui, allora, la poesia è il reperto di una condizione (concetto, questo, di autobiologia) che da storico/umana si è fatta biologica, quasi incomunicabile, sede di un’autoanalisi condotta per riportare alla luce la smarrita identità in un ostinato e solitario sperimentalismo che ha come fine – soprattutto – di ricercare e ricreare la lingua poetica come strumento di conoscenza.
Per spiegare tutto ciò, possono bastare alcune composizioni per ciò esemplari, come Piccolo canzoniere familiare, in cui sono evidenziati grandi momenti di spleen e di sospensione; Pianura, ove le parole si snocciolano sicure e precise; Il sigillo (già citata e bellissima), in cui la vita si evolve in un esplicito ed elegante movimento elementare, realistico-estemporaneo senza eccessive alterazioni; Il vecchio amico, che si gioca tutta in una sorta di critica della ragione sognante ed in cui emergono qua e là forti considerazioni sull’esistere, di rara profondità; Il viaggio di poesia, che vale “tutta” una dichiarazione di poetica e che riporta alla mente Remo Pagnanelli; Dove la roccia non crolla, che vale il grande volto delle cose che restano dopo l’Apocalisse; e la splendida E’ sempre più elevato il silenzio, dedicata ad Alvaro Valentini, che chiude il libro e ne rappresenta una delle pagine più intense.
Allora, che cosa il critico letterario trova in queste poesie di Davoli? Accettata la”condizione umana” intesa come miserabile e sublime al tempo stesso, il poeta di padano piceno ritenta ancora una volta l’ascolto delle apparenze sfuggenti, delle persone e delle cose che, sempre più stanche e tristi, senza speranze anche soltanto effimere, si agitano nei limiti della ragione e della storia. Sulla carta rimangono tracce di sogni dentro altri sogni, di memorie, di memorie di storie d’amore che tentano un perentorio possesso per poi, definitivamente, perdersi; scrittura alta, dunque, mentre la verità d’essere (il diritto/dovere di incazzarsi davanti – e dentro – le ingiustizie, come diceva Danilo Dolci) appare sempre più lontana in punti eguali ai propri contrari (è, questa, cioè, una poesia costruita per “sembianze”… e bene!), mentre anche la teologia (la sua onesta teologia) appare una scorciatoia.
Gabriel Del Sarto – Postfazione a A tempo nuovo (2005, tiratura limitata pro manoscriptu)

Colpisce, in questa nuova raccolta di poesie di Filippo Davoli, la continuità col passato e, nello stesso tempo, la novità. Davoli, sia sul piano del contenuto che della forma, mi sembra portare a compimento ciò che era già presente ne suoi libri precedenti, soprattutto nei migliori (a mio avviso Una bellissima storia e padano piceno). Ci sono dei versi che meglio di qualsiasi commento descrivono quello che intendono affermare: “La vita che non ha nulla di eccezionale / me la coltivo, dicevo, come un piccolo / orto discreto.” Siamo di fronte ad una dichiarazione di poetica, allo svelamento di un preciso sguardo sul mondo, di un uomo che considera la vita, nei suoi aspetti ordinari, come il luogo dell’autenticità possibile. L’io di queste poesie oscilla su un abisso, è come in precario equilibrio, da una parte tentato da una vena neocrepuscolare, che lo porterebbe ad una visione delle cose melanconica e orientata a considerare la condizione umana come assolutamente marginale, relativa e, in ultima analisi, priva di un senso forte, dall’altra parte mosso da una decisa sensibilità, in quanto facoltà dello spirito, per le cose che, nella banalità del vivere, si offrono ai nostri sensi. La poesia diviene il luogo e lo spazio privilegiato per registrare (e testimoniare) questo confronto assolutamente soggettivo ma, per quelle ragioni che rendono importante per noi la lirica, valido per tutti. Ecco, credo che in questa raccolta si giochi una partita decisiva, più che nelle precedenti, proprio fra queste forze per certi aspetti opposte. Credo, insomma, che questa lotta raccontata e, mi pare, ‘risolta’ nell’acquisizione, sempre precaria, di una superiore pulizia e saggezza, sia la novità vera del libro. Novità che direi antecedente alla scrittura e, quindi, anzitutto biografica. Come se ci trovassimo su una frontiera in precedenza solo avvertita, l’io di queste poesie passa in rassegna sé stesso, i suoi stati d’animo, i motivi della scrittura, le amicizie, le presenze/assenze (la madre prima di tutti), il “disordine raro” che “abita il mondo / di quattro mura che mi abita”, e tutte le cose che colpiscono i suoi sensi (la neve, il mare, le persone, i nomi ecc.). Lo fa talvolta con crudezza, per poter scoprire che la vita che cerca è ancora dotata di senso, che “Altro è restare / nella dolcezza del fiume, nella pienezza / semplice delle cose.” Come in un moto ondoso, quello delle colline maceratesi e del mare verso cui esse diradano, il poeta, muovendosi fra le sue cronache, attraversando e descrivendo un universo che gli appartiene, scopre il lato profondo e morbido della vita. Quello stato di grazia che gli permette di dire che possiede “pure / la cronaca un suo segreto / universo.” Quella che viene narrata è la scoperta di una vita che “sconfina”, ed il mare, simbolo connotato cristianamente, è per questo un luogo amato. Esso rappresenta la direzione verso cui muoversi, la necessità per cui muoversi.
Questa direzione e questa necessità sono, in Davoli, anche un fatto di stile. Inteso come cura del lessico, del ritmo e come risposta al desiderio di bellezza. Rispetto ai precedenti volumi si nota subito come l’autore abbia proceduto nella direzione, già presente, di una maggiore secchezza e semplicità. Come se queste fossero la risposta più aderente e congrua al sentire dell’io, che pare volersi allontanare da modi sentiti come ‘orpelli’, come facili e manieristici tecnicismi. Non è una strada priva di rischi. La nostra tradizione conosce pochi poeti baciati dal furore della semplicità, ed anche in questi le cadute di tensione sono avvertibili. Eppure Davoli pare avere scoperto nell’adesione a questa linea il suo vero talento. Davoli è un poeta lirico autentico, che si colloca in una linea riconoscibile della tradizione, che annovera, per fare dei nomi fra gli altri, Saba, Penna, un certo Caproni, Neri, senza dimenticare il Pasolini lirico, quello che pone il suo io al centro di un mondo raccontato per effusioni a volte sorprendenti. Questo suo legame con una parte della lirica novecentesca (quella parte che non ‘simpatizza’ con Montale per intenderci) non è esclusivo ma, come in molti poeti contemporanei, ‘aperto’. Altre correnti ed altre letture si annidano, nei suoi testi. Se ci soffermiamo al livello dei contenuti e delle immagini simboliche utilizzate, Turoldo – e dietro di lui i salmisti dell’Antico Testamento – appare prepotentemente. Per Davoli la tradizione costituisce un insieme di immagini e di ‘soluzioni’ stilistiche possibili, fra cu compiere una scelta. Ma diversamente da altri, anche a lui coetanei, egli una scelta l’ha già fatta prima della scrittura e, come conseguenza, essa si ripercuote all’interno del suo sistema poetico. La forma di queste poesie testimonia il raggiungimento di uno stile personale e maturo, che gli consente di raccontare la vita nei suoi aspetti ordinari con una autorevolezza rara.
Andrea Ponso – Introduzione alla lettura di Figure senza erbario in Come all’origine dell’aria (2010)

“Vorrei che queste non fossero parole / ma un piccolo testamento del volere”.
La parola “testamento” si presta a diverse interpretazioni, soprattutto, qui, trattandosi di asserzione poetica. È sicuramente un testamento particolare: non dimentichiamo che “Testamento” è anche la traduzione poco precisa, a dire il vero, delle Scritture; potremmo quindi leggere questi testi come appunto testamento e evangelo, annuncio, lieta novella, amore sconfinato per la vita, per l’incarnazione – e non certo come abbandono o via di fuga e di rinuncia. Si tratterà di vedere come possiamo dire di questo, in che modo vi possiamo entrare ed essere accolti. Proviamo a formulare alcune riflessioni in merito, senza nessuna pretesa di completezza o di sistematicità – caratteristiche, queste ultime, che rischiano sempre di far morire quell’aria che soffia tra i vuoti della scrittura e che appunto la tiene in vita, come nella dinamica tra torah scritta e torah orale della tradizione ebraica. Leggere e praticare la vita secondo la dinamica dell’evangelo è già redenzione; non nel senso di un mondo pacificato e privo di contrasti, che schiva il dolore e il male, ma nel senso di una redenzione ad un tempo conclusa e imminente, già e non ancora, che lascia aperto uno spiraglio, sempre, e non solo per speranza ma – attraverso questo pungolo a volte difficile e a cui non siamo più abituati della speranza stessa – verso una pratica dell’esistenza che non si chiude nei suoi doni, nei suoi possessi e possedimenti, ma che si apre, anche dolorosamente, al mistero tremendo e dolcissimo dell’altro e dell’Altro; qui, oggi, ora. In questo preciso momento, che poi non è altro che il presente stesso della scrittura e della vita nel suo insieme stratificato e leggero, profondissimo e lieve, tragico e gioioso, oscuro e accecante. Come ha scritto Kant a proposito dell’analogia fidei, che essa non significa affatto una similarità imperfetta di due cose, ma una perfetta similarità di relazione tra due cose del tutto differenti, così dovrebbe essere ogni relazione con l’alterità, con il suo dono e la sua concretezza anche quotidiana.
Il lato liberante del dono non è quindi mai, nemmeno per il dono della parola (che viene dato a chi scrive da un altro per altri, come lo stesso annuncio evangelico e la stessa figura di Cristo) il possesso del dono stesso, la cancellazione della sua integrale alterità, quanto piuttosto ciò che nel dono “lega”, crea una relazione, un essere con, una circolazione di energia, di ascolto e di gesti concretissimi. Il dono ricevuto della stessa scrittura, come quello delle Scritture e della Parola di Dio, non può essere mai bloccato, reso letterale: esso deve camminare sulle vie del mondo, deve incontrare l’altro in quanto altro, e solo in questo incontro sprigionare la sua forza; queste scritture, non a caso mi pare, come la Scrittura stessa del canone biblico, tendono all’anonimato: niente a che vedere con le teorie moderne e postmoderne della scomparsa dell’autore – qui, piuttosto, si invoca con forza la comparsa dell’altro, la sua collaborazione ermeneutica e di vita, che non è la stessa cosa! Come ricordava Mark Twain, infatti, il rischio, dal punto di vista del rapporto con la scrittura e le Scritture, è sempre quello di fare un elogio funebre a un vivente: l’elogio può essere certo fedele e appropriato, ma sarà sempre disgraziatamente prematuro!
In questa modalità di vita e di scrittura, allora, si è sempre in questo dolcissimo paradosso di anticipazione e incarnazione, di profezia (nel senso concretissimo che il termine ha nella tradizione biblica) e rispetto del passato, del dato, del dono e del peso della stessa tradizione (sia essa poetica, teologica, memoriale ecc.): “Vorrei giungere là / con lo sguardo già là da tempo immemore”, senza “separazione dall’altro”, certamente, ma proprio in virtù di un amore per il “basso”, per il vivente, per la quotidiana, minuscola e grandissima esistenza di tutti i giorni, feriale, silenziosa.
Filippo abita in un palazzo in centro, al terzo o quarto piano, se non sbaglio: c’è molto silenzio, si sente il vento e si vedono d’inverno le montagne imbiancate di neve; mi raccontava che spesso, anni fa, scendeva a dormire in macchina per il troppo silenzio, per sentirsi vicino ai rumori della vita; tuttavia, quella casa in alto non è inaccessibile: ci si arriva facilmente, e la porta è sempre aperta, a tutte le ore; vi si sentono le voci sciamanti degli ospiti, degli amici, di chi è di passaggio, lingue e dialetti diversi, intonazioni, cadenze musicali o sguaiatamente vive, risate grasse e discorsi al limite dell’indicibile. Ecco, anche la struttura della lingua poetica di Davoli potrebbe essere paragonata a tutto questo: è un codice che rischia fino in fondo la sua semplicità, che poi altro non è che complicità e vicinanza con il lettore, qualunque esso sia, una lingua che si fa accogliente per dare davvero voce agli altri, non solo metaforicamente ma nella pratica – eppure è allo stesso tempo una lingua classicamente limpida, alta, come se ne sentono poche, che non si richiude nei forzieri del mestiere, che ricorda la migliore tradizione italiana senza l’attaccamento alla divisione tra alto e basso, e senza nemmeno certi giochetti sterili e del tutto intellettualistici di avvicinamento alle lingue dei mass media ecc.
Lo so, il paragone è forse troppo grande, quasi blasfemo, ma potremmo pensare che la lingua della poesia dovrebbe essere qualcosa di simile al far parlare il silenzio di Cristo di fronte allo scherno di chi stava sotto la croce e gli ingiungeva di salvare sé stesso, di scendere dal legno: infatti, quel silenzio non è il silenzio dell’alto e del distacco dal mondo; non è la presunzione di avere già in tasca la gloria e il regno, quanto piuttosto un atto di amore smisurato per la terra, per l’esserci fino in fondo; Dio, in Cristo, in qualche modo, si libera da Dio stesso, si libera della sua libertà e della sua imperturbabilità, mostra una vicinanza concreta e ad un tempo senza confini, non si stacca dal legno, apre le braccia… e nel momento dell’ultimo respiro, nel momento di massimo dolore e distacco, dove l’urlo è quasi disumano, non a caso recita il famoso versetto del salmo. In questo urlo lacerante indistinguibile da questa “citazione” canonica dalle Scritture si mostra tutto quello che potrebbe essere la preghiera – e la stessa poesia: carne e parola, sentire e ascoltare – tanto che Cristo stesso, nel citare la Scrittura non si mostra come absoluto ma piuttosto legato in maniera filiale al Padre, alla comunità che si incontra e si interroga incessantemente attorno alla Parola e alla sua saggezza e tradizione, in una relazione che è l’unica ontologia possibile e viva: carità e compassione come fondamento della verità – e non viceversa. È una sequela impossibile per noi. Infatti anch’essa, come tutto il resto, non può essere che un dono.
Davide Tartaglia – I destini partecipati (2013), in www.unacasasullalbero.com, 27/06/2014

C’è una poesia di Carlo Betocchi che descrive in maniera incredibilmente calzante il sentimento che pervade la lettura dell’ultima opera in versi di Filippo Davoli. È tratta da Un passo, un altro passo, raccolta del 1967, in cui il poeta fiorentino, ormai sessantenne, scrive: Non ho più che lo stento di una vita / che sta passando […] Eppure, senza acredine. / C’è quell’amore nascosto in me / quanto più miserevole pudico, / quel sentore di terra, che resiste, / come nei campi spogli: una ricchezza / creata, non mia, inestinguibile. È proprio questo sentore di una terra che resiste, di una ricchezza inestinguibile, che afferra e inchioda alla lettura chiunque intraprenda la bella avventura di addentrarsi nelle pagine de I destini partecipati. Verrebbe proprio da chiedersi come si fa ad invecchiare così: senza acredine (anche se Davoli è tutt’altro che vecchio), in cui il passare degli anni, più che un declino, diventa un approfondimento ancora più onesto del proprio umano che, di conseguenza, porta in dote una maturazione della parola.
La poesia di Davoli segue un procedimento a rebours, uno sviluppo che non è affrancamento dalle origini, distacco, ma piuttosto un ritorno al nucleo originale della parola poetica, un’indagine ancora più appassionata circa il fondamento della propria esistenza, come artista e come uomo. Questo è un libro che per essere capito, o meglio, per goderlo nella sua profondità va riletto più volte. Occorre arrivare all’ultima pagina e poi ricominciare daccapo perché l’epilogo degli ultimi versi – lavoro per il mondo che mi attende / vivo il presente per l’eternità – getta una luce su tutto quello che viene prima, è lo sviluppo maturo di una chiarezza ancora in nuce che percorre la singola pagina, ognuna passo ineludibile per la conquista di questa consapevolezza.
I destini partecipati esce a distanza di tre anni da quella che resta, a mio parere, la vetta artistica di Davoli: Come all’origine dell’aria. Seppure il primato di quest’ultimo, per quanto riguarda il raggiungimento di una grazia e rotondità del verso, di un’eleganza della parola (vera cifra stilistica del poeta fermano) rimane indiscusso; I destini partecipati compiono un passo ulteriore nella direzione della personalissima ricerca poetica ed umana di Davoli.
La poesia di Davoli perde qualsiasi orpello formale ed acquisisce invece un’asciuttezza più decisa, radicale, che non scivola mai nella sciatteria, ma nasce piuttosto da una conoscenza consapevole di cos’è la parola e cos’è l’uomo, della finitezza del termine e dell’infinità della vita, di quell’ Amore, che chi ti incontra non sa dirti. In questo senso la parola non ne esce svilita ma piuttosto valorizzata nella sua gravità, nel suo peso verbale e nella ricchezza di significati. Il percorso del libro si sviluppa lungo l’asse della riconquista di una nudità dello sguardo, di quell’innocenza perduta capace di puntare dritto al fondo delle cose percepite ultimamente come dono. Resiste, infatti, un’ultima fedeltà nei confronti del reale (e dunque anche della parola), una consapevolezza che solo restando / al tuo metro di terra e di luce / guardandoli, avvertendo il presagio / del mondo che si mescola ruotando, spicchi il salto, ti accolgono.
È proprio nell’impastarsi totalmente con il proprio metro di terra e luce che la vita torna a ferire, a ricavarsi uno spazio. Uno spazio che, nella poesia di Davoli, viene occupato dai ricordi di una vita, dalla nostalgia per quei volti perduti, come se per un attimo l’altezza della parola abbia il potere di farli rivivere. A ben vedere però, ne I destini partecipati troviamo una poesia che vive una dimestichezza assoluta con questa nostalgia, con l’inquietudine, come se il poeta ne conosca a memoria i tratti, seppur sfuggenti, e ne anticipi i tempi, ne domi le infuriate e accompagni le ritirate. Per questo il ricordo, anche quello più doloroso, seppur in un coinvolgimento emotivo sincero, è vissuto sempre con un distacco sacro, capace di guardarlo nella sua interezza e, proprio per questo, capace di non soccombere al dolore ma piuttosto di veicolarlo attraverso la scrittura, strada tormentata ma necessaria di elaborazione continua del lutto, dell’assenza. In quest’analisi ci vengono in soccorso i versi di altri due giganti del Novecento, segno evidente che, quando una voce è vera, essa non può che essere contaminata dalle voci dei padri, non può che andare ad immergersi nel fiume di una ricerca lunga secoli. Ecco dunque come i versi di Par Lagerkvist: Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? / Che colmi tutta la terra della tua assenza? e Mario Luzi: di che è mancanza questa mancanza, / cuore / che ad un tratto ne sei pieno? gettano una luce su come sia vissuto dal poeta il tema centrale di tutto il libro: l’assenza. Essa non è mai vissuta come approdo disperato del vivere – e dunque anche della parola – ma è piuttosto quel centro infuocato che spinge ad un’inesauribile ricerca, ad un continuo domandare. Questa ricerca costringe ad un inevitabile solitudine, ma è una solitudine che non deprime, che non cede alla facile compagnia del mondo, ma scava (le escoriazioni non bastano, bisogna ferirsi) fin dentro le viscere del reale per scoprirne il fondamento, per svelarne il mistero. Come è luminosa, come è dignitosa in Davoli la scoperta di questo rapporto intimo con il Mistero!
È dunque nelle pause, nei momenti apparentemente più insignificanti, lontani dai riflettori, che si realizza questo rapporto personalissimo, un rapporto in cui il poeta rimane sulla soglia del reale, tende la corda che divide il visibile dall’invisibile, in attesa di una voce che si riveli. Si ricorre dunque ad un topos tematico che è quello del ‘passaggio’, dove la vita si tocca con la morte, che non è mai un viaggio verso il nulla ma piuttosto l’introdursi in una nuova conoscenza, è una fanciullezza non immemore / che si fa nuova. Proprio per questa urgenza che percorre la scrittura – che è innanzitutto umana più che letteraria – la poesia di Davoli non si attarda in nessun rovello estetico, procede piana, regolare e mantiene in modo del tutto naturale le accelerazioni fulminee della visione, i lampi lunghi, quella luce che improvvisa è capace di accendere il reale, di leggerlo più a fondo e quindi di suggerirne un senso. Ogni giornata è a cavalcioni sull’abisso / Eppure se alzi lo sguardo puoi scorgere l’aria / che si risveglia dal sonno. Un senso che è sempre offerto con la discrezione di una poesia che sembra vivere già solo per il suo pronunciarsi, in una totale fiducia stupefatta del suo semplice esistere, libera dai lacci di qualsivoglia incidenza storica o culturale, nella piena coscienza che aprire il cielo non è opera d’uomo. È forse proprio questa coscienza, questo stupore di fronte all’ampiezza del cielo – che ci sovrasta ma ci coinvolge, ci ferisce ma ultimamente ci salva – che colpisce della poesia di Davoli. Una voce che – seppur nella sua forte proiezione metafisica – si mantiene lontana da vaporosità eteree e possiede, come terreno fondante, un luogo solido di partenza e di approdo: il reale. In mezzo, nello spazio drammatico della libertà dello sguardo si fa largo la poesia, in quella drammatica scelta che tocca tutti gli uomini: decidere su cosa fissare lo sguardo, perché è tutto un altro vedere se non ti torci / sul tuo ombelico […] è un’altra luce quella che illumina l’aria. E’ un’altra cosa.
Ecco, forse è proprio questo il segreto della poesia di Davoli, forse proprio così si diventa grandi senza acredine e si attraversa il mondo beati nella calma età che procede: rimanendo fedeli ad una semplicità autentica del guardare che è sempre ed ultimamente la partecipazione ad un altro sguardo. I destini partecipati.
Alessandro Moscè – La luce, a volte (2016), in www.alessandromosce.it, 11/05/2016

Filippo Davoli, nato a Fermo nel 1965 e residente a Macerata, è un poeta di sensazioni fisiche, terrigeno, che trattiene solo ciò che è necessario, per dirla con Massimo Raffaeli, il quale ha curato la prefazione della raccolta dal titolo La luce, a volte (Liberilibri 2016). Un poeta, dunque, del tutto estraneo a quella palingenesi di tipo sperimentale e all’input avanguardista di questo convulso terzo millennio. Non è la prima volta che una luce evidentemente di derivazione luziana (cristiana), per Davoli si fa nucleo atomizzato (si pensi a Alla luce della luce edito da Nuova Compagnia Editrice nel 1996). Una luce come balsamo, una luce consolatrice che visita e benedice, abbrivio di una vera e propria anima. Ma l’elettrone di questa scrittura non si limita ad assimilare solo ciò che è “nudo allo sguardo”. Davoli tende ad “innalzare” la sua vista che allarga l’orizzonte e si proietta verticalmente, che diventa visione e stringe una sorta di materia trascendente, fortemente sentita, e una retrospettiva meditata, come è evidenziato nella nota di Raffaeli. Il dato sensibile, piano, sfuma sin dai primi componimenti tra “il soffio della nuvola azzurra” e “l’umidità violenta”, tra “l’afa notturna”, “il bellissimo mare” e “la misteriosa allegria”. Il poeta fa uscire la parola dagli anfratti della sua città, del suo borgo, delle sue strade, delle pareti domestiche delle case di quartiere, come fosse una guida rivelatrice, una mappa cartografica da tenere in mano. Il chiarore della neve, la caligine, un “blando miracolo” ricordano l’altro maceratese che si è mosso tra ombre e orme in epoche indefinibili: l’indimenticato Remo Pagnanelli. C’è un fondale, nei versi, che si riempie del presente, del contingente, di un reagente filosofico, esistenziale, come scarto della ferialità. La parola è sì un mezzo per addentrarsi negli spazi e nei luoghi, per insinuarsi nelle piazzette, nei bar, tra i muri terrosi dell’inverno, ma c’è di più. La morte, spesso richiamata, è un fine, non solo un dato empirico, circostanziato. E’ una domanda, una verità transitoria: “Per chi il destino chiama ad un rimpianto / di altri, dopo la loro morte, bisognerà / forse morire? Rivolgere / ad altro passo lo sguardo, questo dovrà / il cuore compiere”. L’opacità delle ore di Davoli, il lucore, e non solo la luce, è un’impressione a freddo, di un dopo. Un’immagine dantesca si fonde con la visionarietà presaga che torna a sprazzi, con il “pieno del vuoto” leopardiano. E’ qualcosa che spinge Davoli a catalizzare il mondo ben oltre le sue pupille incandescenti. La luce si traduce in un verso nutrito di silenzi, di “accordi dissolti nell’aria”, dove la paura della morte fa temere per sé e per gli altri: quindi non occulta il dolore, ma anzi lo intensifica gradualmente. Il poeta vede la nuova gioventù e vorrebbe essere uno di quei ragazzi che camminano tra gli incantamenti giornalieri dove si parla con la luna, dove il segreto è in un’apparizione traslucida, incompiuta (altra eco di Pagnanelli). Filippo Davoli è, inoltre, un poeta di affetti familiari. Molto intensa la poesia dedicata alla madre nello scandaglio dell’umano non più reticente, in una percezione di perdita e dissolvimento. “La guardo poco, in realtà. Mi vergogno / che sappia certe cose di me che non le ho detto. / Dicono alcuni che i morti vedono tutto / e solo non possono cogliere i pensieri”. La concretezza di Davoli innesta una volta nell’aria dove si respira l’odore del rosmarino, della pioggia, del cotto, del verde delle persiane, degli oggetti stantii. Il presente e il passato si “compiono” contemporaneamente: non sono due tempi distinti, separati, così come le persone scomparse che si aggirano sbirciando, fissando il vuoto: “Non le voci mi tornano, mai. Piuttosto le ombre / che strusciano da una camera all’altra in vestaglia / nell’ora della siesta”. L’anamnesi di Filippo Davoli, come sottolineato nell’antologia Sulla scia dei piovaschi (Archinto 2016) certifica l’aderenza autentica e sostanziale alla vita e a un “vizio di scrittura” che smaschera il suo essere civiltà e passione. La compostezza sostanzialmente classica della forma lirica di Davoli, richiama la grande tradizione novecentesca che va da Saba a Raboni, passando per Sereni, Gatto, Caproni, Benzoni, alcuni tra i poeti più affini alla lingua poetica che rinuncia ad un appiglio gergale e si eleva a voce anti-programmatica, non costruita in laboratorio, ma che prende le mosse dalla scansione delle cose. Rimane una stasi che si muove nelle stagioni, nelle sere italiane, nel “tragitto lungo e breve dei giorni”, senza alcun idealismo, nell’ossessione memoriale, tra fantasmi disseppelliti che provengono da un altro tempo. “Non possiamo fare nulla, nemmeno posso / valicare lo spazio grande dell’illusione. / Ma il sogno è libero, lo sguardo rapace / non riesce a sfiorarne minimamente la grazia. / E tutto è volo, tutto è apertura”.
Prefazione di Franco Loi a Alla luce della luce (1996)

1. L’amore mi ha condotto a questi volti. Davoli fa questa citazione tra le strofe dedicate al matematico e sinologo Matteo Ricci? Sul misticismo non spetta a me dire parole nuove. Mettersi in attesa davanti al mistero delle cose, dell’uomo, del mondo, è proprio di ogni poeta, e non solo del santo. E in tutt’e due i casi, è il solo modo per portare un vero aiuto all’uomo. Non c’è vera poesia e non c’è autentica santità senza un atteggiamento mistico, senza accostarci al silenzio, dal quale, solo, proviene la voce e la parola; nel quale, solo, si giustifica l’azione.
A me pare opportuno accostare questa citazione all’altra, evangelica, interpretata dal Cantalamessa, che si riferisce al distacco “dall’amore di Dio” che il Cristo sente angosciosamente tra gli spasimi della croce. Ecco, a me pare che tutta la poesia di Filippo Davoli sia un perenne tentativo di esprimere, nel corpo delle cose e delle esistenze, la compresenza del vuoto e del pieno, dell’oscurità e della luce – e insieme un’attitudine all’amore, che è poi anche in un poeta compassione di sé, e slancio al dialogo con l’ignoto.
Madonna mia che freddo / che bel freddo… dice un verso, ed è appunto in questa vocazione ad afferrare l’antitesi il senso del suo poetare. Cerco me / in te che non ci sei, Attendo gli esiti che non giungeranno, e così via, in un protendersi da un vuoto verso un vuoto ma nel colmo di una speranza.
2. Ne abbiamo parlato a lungo nei nostri rari incontri: la tendenza è il silenzio, un rarefarsi della parola per alludere all’evento dentro la vita. Nella poesia la parola non è mai superflua: o è strettamente ed efficacemente legata all’essenza o è voluta dal ritmo e dal metro: c’è una legge di sostanza e di musica. Per Davoli tutto ciò è quasi ovvio. Ma il poetare in lui ha anche una necessità intima, rispondere alla provocazione dello spirito, rendere scarni gli strumenti, letterari e umani, all’ardua e flebile voce che dice: Smettiamola / vado ripetendo perché l’attimo / del distacco sia almeno, almeno quello / l’unico atto d’amore azzarda nel momento del “naufragio”. Ed è questa caparbia volontà di significato e di presenza a caratterizzare la personalità del poeta e il suo “fare”, mentre, insieme, gli affiora, bel oltre l’attitudine e la preparazione letteraria, la verità dell’impotenza della parola in se stessa: Si sfanno le parole / come briciole di pane.
3. La citazione iniziale evidenzia la malinconia dell’”essere lontani da Dio” e tuttavia la convinzxione di dover amare, di confermare il primato dell’amore – che è movimento verso – la volontà di uno scambio con le creature. Ma non è questa la poesia / forse nemmeno si scrive, inizia la penultima lirica in fondo al libro. Anche Noventa raccomanda ai poeti: Cerché più in là. Giacchè non nella poesia è lo scopo, pur se anche la poesia inerisce ai fini umani e divini, anzi, è necessaria alla memoria, orientamento verso il fine, sguardo a quel “più in là” che incatena il mistico. Non mi piace la “sistemazione” letteraria e non ho presunzione critica né propensione ai riferimenti e alle somiglianze. Certo, Sereni è presente in questo libro. C’è la sua ritrosia al dire ciò che intimamente lo muove, c’è il suo senso del vuoto e dello smarrimento – si pensi al “Belvedere” di “Stella variabile” – c’è la dimensione inquieta dell’altro – l’amico, la donna, il paesaggio – e c’è, soprattutto, una tradizione ermetica, malgrado sia Sereni che Davoli ne rifiutino le premesse teoriche. Del resto, sappiamo che un’epoca raccoglie le somiglianze stilistiche più di quanto appaiano ai contemporanei e indipendentemente dalle intenzioni. Ma preferisco riconoscere in Davoli quell’atteggiamento così ben espresso in una poesia postuma di Franco Fortini: Vieni tu, vieni accanto, voglio dirti / qualcosa che ricorderai, cioè la disposizione al dialogo, la costante utopia di un interlocutore, più o meno privilegiato.
4. Non possiamo tuttavia porre in secondo piano – il mio “noi” è riferito al lettore – la propensione di questo poeta a farsi medium verso l’ignoto, a oltrepassare i limiti di una convenzionale descrittività o di una mentale conoscenza. Anche la rappresentazione della materia, della natura, dei corpi, tende a svelarne le essenze, capirne i significati riposti: Fissano le tue mani le tue rose / cinte d’acqua e i tessuti che già frusciano / lievi di te, sussurra in una bella poesia, e c’è un accenno all’intelligenza delle mani e delle rose e una compenetrazione tra le creature; e sillaba più avanti: Poi, a un tratto, forzare l’uscio, darsi / una fessura sul mondo e ancora sinteticamente: Amare l’attimo prima dell’attimo di andare. Sì, rimembranza leopardiana. Ma anche l’intuizione che non è così naturale il nostro guardare il mondo, che ci si dà uno sguardo, che, come una ferita, apriamo sempre un varco tra le nostre abitudini e il nostro modo di subire la natura per, finalmente, vederlo, il mondo. Non sono gli occhi che guardano, ma noi che spostiamo lo sguardo col mutare della nostra coscienza. E quell’amare l’attimo prima dell’attimo ancora somiglia al prima del dì di festa, ma lo sposta nella continuità – non c’è festa che delude, ma un’incessante amare l’attimo prima, l’intensità di cogliere la vita e abbracciarne l’eternità. Sintomatico è quanto mi permetto di stralciare da una lettera di Filippo: “E dire che la bellezza della nostra vita sta proprio in questa precarietà, che ha la sua segreta ma incontrovertibile dimensione di dolcezza; e che, come tu sai bene, proprio dalla precarietà del nostro Io nasce la consapevolezza di essere eterni, questa fantastica e semplicissima scoperta che si rinnova ogni giorno…”. Perciò non occasionale la citazione di padre Matteo Ricci, ma una consonanza profonda, una fratellanza nell’umiltà e nella cecità visionaria della fede: E la notte veniva a perdifiato, / e cresceva domestica, annientata, / nel tuo dolore di carne e di tempo, / la pienezza di quella Luce…Non c’è acquietamento, né consolazione! La pienezza di quella Luce non toglie il dolore, anzi lo acuisce, perché accresce la pochezza del nostro rispondere alla Sua volontà. Appunto dall’interno di una sofferenza, che la carne crea a se stessa, si scopre la pienezza, buona e immortale, della madre Luce, e la nostra impotenza a risponderle, ma anche la sua dolce benevolenza. 5. Non vorrei che le mie parole giungessero sproporzionate o inopportune alla modestia piana di questa poesia. Ma preferisco, in ogni occasione, sottolineare l’ampiezza del sentire e dei propositi entro cui si muove il poeta, evidenziare gli strati intimi di un nostro comune sentire e dialogare, tra le disperazioni che pure ci tormentano, le quotidianità che ci tengono prigionieri o di cui ci facciamo prigionieri e quegli aquiloni di speranza che ristagnano / legati a un filo che non si spezza mai. Sì, poesie d’amore per una donna, momenti sfuggiti al quotidiano, ricordi, brevi ritratti, e poi amici, la città, il paesaggio, le riflessioni. Sono tanti motivi che spingono l’uomo a dire. Ma, attraverso questa memoria del vivere, emerge un incessante richiamo, sia pure venato di malinconia o portato dal vento che sferza la solitudine, alla fiducia, al ricordo di sé, all’attenzione, al rispetto per la vita.
Nota di Massimo Raffaeli a La luce, a volte (2016)

Nella raccolta che ormai testimonia una piena maturità d’autore (e tuttavia si tratta di un libro concentrico prima che di una somma di testi, nonostante l’eclissi di una esplicita partizione interna), Filippo Davoli ritorna fin dal titolo all’immagine o anzi all’emblema che da sempre è più suo, primordiale e iniziatico, quello della luce. (…) Il tempo, che segna un limite e traccia una perpetua retrospettiva, ne è sia l’ispiratore sia, dall’interno, il motivo propulsore. Disponendo la propria cadenza nei modi di un andirivieni, il tempo in sé è intangibile se non per momentanee infrazioni, per brevi varchi in cui l’aria sbocca e si insinua, o per impreviste folate del vento che può dirsi, per Davoli, la musa nascosta di giornate inerti, imperscrutabili, costernate. Il vento è il dato sensibile di un mondo insonorizzato la cui opacità o insignificanza si manifesta nella quiete acustica, in un silenzio che rimane tale pure se è strillato dal mondo con sonorità compulsive, invasive. In un suo verso Davoli dice della paradossale incompiutezza delle arti figurative perché destituite di suono e parola, cioè quei medesimi segni che altrove prendono forma di una vera e propria invocazione alla musa: “Portami, vento, rubami in un sogno / che non finisca…”. Estremamente incisa, prosciugata, la dizione di Davoli è frontale, assertiva, e adombra la lezione di alcuni maestri nel loro stile tardo e più essenziale (senz’altro Mario Luzi, presente in epigrafe, ma anche Franco Fortini per certe clausole che scattano vibrando in un polline di suono), metrica e prosodia si sovrappongono e per lo più coincidono sull’andatura dell’endecasillabo di base, liberamente allungato o accorciato, che comunque si vieta di cantare, se non mutamente o in sordina, sfiorando con delicatezza il grigio della prosa senza mai però adeguarvisi. L’orizzonte della poesia di Davoli, anche quando traghetta materiali del passato o immagina i suoi gesti al futuro, è sempre il presente. Ed è un presente inderogabile, di poche figure elementari, quasi un cerchio familiare (interni domestici, radure cittadine, spazi reclusi) dove di volta in volta viene in primo piano la fisionomia che si lega all’atto stesso della percezione e ne è il correlativo. È qualcosa o qualcuno (qui più spesso, dileguanti nel ricordo, le figure del padre e della madre) che dà senso e compiutezza al frangente percettivo nello stesso momento in cui tutta quanta la realtà residua sbiadisce nel vaniloquio, in un flou evanescente, e retrocede ad acustica di sottofondo. Restano gli istanti salvati dall’insignificanza, le tessere musaiche della sopravvivenza e pertanto salvifiche come sanno esserlo certi dettagli che, una volta trascorso il temporale, risorgono più vividi e traslucidi nel dopopioggia.
E sono questi i corpuscoli della sola luce possibile, a momenti, nel moto centrifugo della vita quotidiana. Non è una luce piatta, a picco, ma una luce che può anche promanare da un nero d’ombra o sgorgare imprevista da un riflesso interno (nervi, cuore, sesso) che è impossibile localizzare. Nemmeno è un caso che lo sguardo di Davoli venga preferibilmente profilandosi da una finestra come non è un caso che essa si apra, dal vero o nella pura immaginazione, sulla vastità di un mare veduto da lontano. Replicando sul piano spaziale la dialettica di vento e silenzio già iscritta nel tempo, vi si oppongono ancora una volta inerzia e vitalità, residua pulsazione e vita per sempre mineralizzata: “C’è un bellissimo mare, questa notte. / S’increspa appena poi ritorna al largo / confuso nel suo nero appassionato. / Non lo solca nessuno oltre un dolore / minimo dei miei occhi. Mi socchiudo, / Richiudo in me lo spaesamento, scrivo / e liberando voce occulto il cuore.”.
Per questo la poesia di Davoli trattiene solo quanto è necessario, solo ciò che non è refrattario, per caso o per miracolo, al dilagare del silenzio dentro la giornata di ognuno e di tutti, solo ciò che resiste al trionfare di una luce troppo abbacinante e immemore dell’ombra umana. La sua è una poesia che sa di doversi castigare e umiliare nella semplicità o nella nudità dello sguardo, dell’ascolto, perciò è capace di apertura e, per etimologia, di sapienza: perché le cose del mondo arrivano alle parole come in un vento ineluttabile.
Massimo Fabrizi, A proposito di padano piceno

La raccolta poetica di Filippo Davoli, padano piceno, racchiude già nel titolo — in cui si opera un accostamento ossimorico che profila un doppio topografico — alcune delle direttive fondamentali che caratterizzano i testi della plaquette, che muove verso la ricerca di un’identità umana e poetica, di esplorazione delle radici genetiche sia esistenziali che letterarie, giacché nel testo vita e poesia sono strettamente correlate, intersecandosi fecondamente l’una nell’altra. È una poesia dalle alte implicazioni morali e formali quella di Davoli, una poesia in cui l’esplorazione del mondo privato e personale, del proprio passato e vissuto diviene espediente per una ricognizione storico-sociale della contemporaneità, per un’attenta analisi della realtà sempre sostenuta da una salda ispirazione civile. Diversi componimenti della silloge si muovono sulla linea di un recupero identitario (Davoli è nato a Fermo, vive a Macerata ma suo padre è originario di Carpi), in particolare le poesie che fanno parte della sezione intitolata Piccolo canzoniere familiare, in cui il poeta estrinseca un bisogno — talvolta quasi fisico, corporale — di osmosi con il mondo circostante, una necessità panica, di immersione-riconoscimento in un paesaggio qual è, appunto, quello tipico della pianura padana. Ma il recupero identitario non si compie esclusivamente per mezzo dell’identificazione per così dire oggettuale, materica, bensì anche attraverso un processo epifanico con cui il poeta cerca di recuperare il proprio mondo ancestrale, la cerchia parentale e familiare, come nella poesia significativamente intitolata Recuperare i parenti in un colpo solo:
Recuperare i parenti in un colpo solo,
sentirne gli accenti, intuirne le mani
tra i gesti normali e non sapere, loro,
cinquant’anni fa come si mettevano le cose.
(p. 21).
In questo voltarsi indietro, il poeta riconosce che sono le vicende di tutti i giorni a sopravvivere al tempo, i gesti, gli atti normalizzati e quasi banali del quotidiano, quelli in cui pulsa, più che in ogni altra parte, il lato più autentico dell’esistenza (“Sono le faccende quotidiane che vivono ancora, / le vicende di tutti i giorni che non hanno mai nome”, p. 21).
Non è un caso, allora, che tra i vari componimenti che fanno parte della sezione, molti dei quali hanno come soggetto del canto figure umane appartenenti al passato “padano” dell’autore, compaia un testo intitolato Il sigillo, quasi un segno araldico, appunto, distintivo di una appartenenza alla stirpe. E l’intero componimento è giocato sul ricordo, a volte ombrato altre ricco di lucore — come le immagini sfocate della memoria —, dei luoghi e dei gesti ad essi legati: una sorta pellicola della coscienza da cui è scomparso, a causa della distanza spazio-temporale, il sonoro. La tramatura poetica, in questo testo ad alto tasso iconico, riproduce il movimento del pensiero nel suo rievocare il passato in cui il mondo, misurato col metro limitato dell’ego infantile, appare inafferrabile, sia nella dimensione (tutto assume tratti mastodontici quando si è bambini), che nel senso e nel significato. Il recupero memoriale si compie per mezzo del meccanismo della visione in virtù del quale gli accadimenti del passato infantile assumono, nell’età adulta, una dimensione onirica; l’esistenza stessa, attraverso un naturale processo di mitopoiesi, rende tali visioni-sogno era mitologica del vissuto personale dell’autore, e contemporaneamente luogo di genesi, scaturigine di ciò che si è qui ed ora:
Scarne visioni
dove il destino si fa, radici incolumi
che la vecchiaia spesso riconduce
come ai bordi del sogno, e i grandi li vedi
ancora come giganti che furoreggiano,
dentro camere enormi, pranzi che paiono
chissà perché infiniti. E te li immagini,
quei bambini che giocano in mezzo a una via,
mentre li vedi perdersi con gli occhi in un dove
che ti sfugge.
(p. 23).
Molto ben riuscito questo intarsio tra l’hic et nunc dell’io poetante ed il tempo dell’infanzia che ad esso si interseca. Persino nella vecchiaia rimangono impresse nella memoria, ai bordi del sogno-visione, le immagini d’allora, giacché l’imprinting permane invariabile ed il passato ritorna con gli stessi tratti, così come fu visto con gli occhi di fanciullo (e con quella stessa limitata consapevolezza). Anche il ritmo dei versi, disteso e riposato, concorre a creare quel senso di ovattata lontananza spazio-temporale in cui i suoni, i gesti ritornano au ralenti. Ma la ricerca che il poeta compie attraverso questo rito epifanico non può condurre, nel presente, al recupero di una propria identità: “Io non sono padano che nel sogno / e un po’ nella memoria” (p. 25) afferma consapevolmente Davoli, conscio che il transeunte non può tornare se non esclusivamente per mezzo della parola poetica.
Strettamente connessa all’istanza dell’assenza della voce quale emblema del transeunte, vi è, nella silloge di Davoli, la necessità di operare sulla parola quale recupero di una sorta di originaria purezza, o quantomeno di fare in modo che la parola si scrolli di dosso tutto ciò che, come dice il poeta, la “inselva”. Della parola, del resto, Davoli sfrutta appieno le potenzialità dialogiche. Ed è forse Pascoli la figura che più ricorre alla mente quando si legge il dialogo — presente in diverse poesie — dolce e sommeso con i defunti, tasselli di un mosaico esistenziale che l’autore ricompone sulla pagina: una fotografica galleria di personaggi che non appartengono più al presente e che sono per questo caratterizzati dall’assenza della voce.
Il tocco poetico di Davoli è intriso di una dolce e struggente vena malinconica che investe le tematiche trattate, come nella poesia Un pomeriggio, in cui il poeta parla di una visita al cimitero dove, sopravanzando tra le piccole contornate da lapidi, è colto da una serie di “soprassalti” davanti alle foto di coloro i quali, magari fino a poco tempo prima, capitava di vedere in giro per la strada. Anche qui, però, il sentimento dell’osservatore non è di sgomento, ma di cristana serenità di fronte ad un silenzio che è “pura pace”:
Ve ne sono parecchi, di soprassalti
per le piccole vie zeppe di foto
che pare si salutino,
facciano conoscenza tra loro,
per un viaggio di convivenza
che si intuisce lungo.
E soprattutto ci stridono
quelli conosciuti di vista e persi di vista,
quando riappaiono
certi nel loro segreto,
resi incolumi da una luce che è bassa,
da un silenzio che è pura pace,
e rimanda a ben altro.
(p. 29)
Ecco allora che l’atto del recupero identitario si fa necessità quasi di osmosi con quelle vite perse lungo il corso dei giorni, per cui l’io si interroga sulle loro esistenze, vola con la fantasia per tentare di ricostruire le loro vite dipanandole en arrière, a partire da quelle stesse foto, quasi fossero dei cammei della memoria:
C’è un attimo, un attimo solo
in cui si incrocia perfettamente il tempo
di ogni memoria, e la fantasia. Volere
quasi sapere quali panni hanno indosso,
e vedere chi qui li accompagnò;
fotografare quell’attimo giusto
e in esso dipanare i frammenti,
immaginare la voce che hanno avuto
certe facce stranissime, captare
un loro lembo di microbi.
(pp. 29-30).
L’amore, allo stesso modo, è pervaso da un senso di tenera pudicizia; l’amore adolescenziale eleva l’io verso i confini del sogno, nutrendosi dei palpiti e delle emozioni che filtrano nello spirito attraverso quella che Leopardi definì “la più degna cosa del ciel mortale”:
L’Ottanta fu una stagione di motorini.
Le ragazzine le portavamo dietro
per sentircele addosso nelle discese.
Ma quella volta era tutto innocente.
Innamorarsi era portarsi un segreto
come una malattia di cui si ignori
ogni sintomo. Eravamo innamorati
tutti quanti della stessa ragazzina.
Non importa che fosse uno stecco incompiuto,
un incarto di ossa, noi volavamo
incauti nei suoi occhi, attendevamo
un segnale qualunque per sognare.
(p. 36).
Il linguaggio poetico di Davoli è sempre mosso, strumento di ricognizione e di esplorazione della realtà di cui coglie, inoltre, gli elementi più intimi e riposti che caratterizzano la vita dell’individuo (il dolore connaturato agli eventi esistenziali, l’attesa, la speranza, la fede, le illusioni) e le istanze socio-idelogiche. Davoli utilizza una quartina molto mobile, di ampio respiro, e la struttura portante del volume è quella del poemetto: una sorta di poesia-racconto di stampo pavesiano che trova la sua perfetta misura con la materia della narrazione.
La sezione Il viaggio di poesia si configura quale sorta di metaforica dichiarazione di poetica; dai testi qui raccolti emergono molte delle componenti tipiche dell’universo di padano piceno. La poesia si delinea appunto quale viaggio, sia esistenziale che linguistico, come nel testo intitolato Il treno che rompendo uno sciopero, nella cui chiusa si presenta un’immagine forte che attraverso il mezzo di locomozione, ambivalente nel suo doppio livello denotativo (“una carretta che cigola”) e connotativo (emblema del reale storico-sociale contemporaneo), restituisce una serie di significazioni che dalla condizione individuale e privata dell’io si amplificano esponenzialmente, incastonate l’una nell’altra, sino a coinvolgere e a riguardare ogni individuo, in quanto chiamano in causa la condizione dell’uomo nella contemporaneità, il suo rapporto con il tempo, con l’altro e, infine, il concetto di libertà. E qui Davoli presenta il dramma odierno con una semplicità ed una profondità al tempo stesso impressionanti, riuscendo a condensare nel torno di pochi versi una drammatica realtà, ovvero il fatto che oggi l’uomo crede di conoscere il senso della parola libertà, ma in fondo il significato più autentico di tale termine gli è ignoto, giacché la libertà che gli viene propinata è apparente, fittizia:
Non è
più come un tempo, il treno: ognuno sta
curvo sul suo destino di orari, impregnato
di un senso di libertà che non conosce,
artigliandolo un po’ alla cieca, un po’
con la grazia immacolata dei poveri
e dei fuggiaschi.
(p. 54).
In questi versi di Davoli è racchiusa tanta parte del cambiamento epocale che la società italiana, ma non solo, ha avuto in questi ultimi 50 anni; un drastico rivolgimento che dalle strutture economico-produttive si è propagato ad ogni aspetto della socialità e dell’affettività stessa. Non a caso, il confronto con un passato modello sociale si opera direttamente nella tramatura poetica:
E corrono via
apparentemente immote case coloniche
dove si consuma, alla luce assai fioca di un fuoco,
il rito estremo del giorno
o quello primigenio della vita.
(p. 53)
È un “ribaltarsi di mondi scaturiti a lampi”, un parallelo tra un’era in cui domina la ciclicità del tempo, la ritualità legata al ciclo delle stagioni, all’alternarsi del giorno e della notte a cui è contemporaneamente legata la ritualità dei gesti e degli eventi esistenziali, della vita e della morte (“il rito estremo del giorno / o quello primigenio della vita”). Ad un modello sociale quale quello della civiltà contadina caratterizzato dalla cooperazione e dalla solidarietà, ne è subentrato uno che rende l’uomo schiavo di un “destino di orari” (in una perenne lotta contro il tempo), chiuso in se stesso, solo in mezzo agli altri, cinto nella propria indifferente individualità. E non è un caso che tutto il libro sia giocato su questo contrasto, su questa costante dicotomia tra uno ieri fatto di individui, di cose e di una struttura socio-economica che non c’è più, ed un oggi che ripropone una diversa condizione esistenziale, in cui domina la mancanza di solidarietà e di autenticità. Del resto, ai due luoghi geografici indicati dal titolo e che costituiscono lo sfondo ambientale di molte poesie del volume, corrispondono anche due diversi stati d’animo, due diverse visioni del mondo e due diverse realtà in cui l’io si trova immerso. Se l’essere padano rappresenta una sorta di ricerca a ritroso delle proprie radici, della propria identità, l’essere piceno è corrispettivo di una differente situazione esistenziale fatta, spesso, di solitudine e/o isolamento. In questa cesura si ritrova molto del Pasolini delle Poesie a Casarsa, in cui la fuga a ritroso si costituisce quale emblema di ricerca di una condizione premoderna di un universo contadino opposto alla dilaniante civiltà moderna. Ogni qualvolta nel testo Davoli confluisce sul versante della, per così dire, “picenità”, del suo essere piceno, emerge una situazione esistenziale differente, molto più complessa ed ardua da affrontare. Si veda a tal proposito la poesia intitolata giustappunto padano-piceno in cui, oltre alla ripresa di una della più belle ed affascinanti immagini leopardiane, il poeta riesce a conferire quel senso di vertigine cosmica che gli è correlato (“Sono un padano fuggito per l’aria / coi vigneti a perpendicolo sull’infinito”, p. 10); all’essere piceno corrisponde la solitudine del poeta (“Sbarco nel corpo della solitudine, / la mia parola mi costeggia e mi apre”, p. 10), che trova unicamente nello scrivere, nella parola poetica un proprio sodale. Ad ulteriore conferma di ciò sta anche il fatto che nella seconda parte del volume, quella più direttamente collegata alla marchigianità ritornano, oltre ad echi e motivi montaliani (la tematica dell’attesa, il male di vivere ed il motivo del resistere) ed ungarettiani (il segreto, la visione-sogno, il mistero, la ricerca dell’innocenza, della purezza anche e soprattutto in senso religioso, tipica ad esempio di Sentimento del tempo), tasselli figurativi e linguistici, talvolta ideologemi, di ascendenza leopardiana, quasi una sorta di tributo/filiazione alla/dalla poesia del Recanatese. Sensibile è inoltre, negli ultimi testi della raccolta, un’apertura cosmica, quasi una finestra dischiusa sullo spazio stellare. Un testo su tutti, quale chiarificazione di questa tendenza, è Poemetto dell’alba, in cui la presenza del magistero poetico leopardiano si concretizza nella ripresa lessicale e figurativa, nonché nella tematica delle illusioni disperse, degli ameni inganni. Il tentativo — riuscito — del poeta è, anche qui, quello di smascherare la finzione che vela il mondo artigliando il cuore delle cose, anche a costo di essere amaramente impietoso con se stesso. Il motore primo di questo meccanismo poetico è la ricerca di certezze e di autenticità, di affidabili verità. In un tempo in cui l’esistenza è sempre più caratterizzata da un coacervo di finzione ed apparenza, Davoli mette a nudo “l’urto / che inceppa l’universo, / e le precarie stabilità degli uomini”.
Rodolfo Di Biasio, “Una bellissima storia” di Filippo Davoli, nel settimanale “L’inchiesta”

LUGLIO – DICEMBRE
1.
I giorni come vanno, come corrono
nel ricordo di te che mi si anticipa.
Già di notte Filì sento chiamare
e poi vedo il sorriso. Poi ritorna
buio l’androne, taciturno il mondo
e dietro, sullo sfondo,
la radio accesa in camera che frange
l’incubo dolce dell’apparizione.
2.
Oh, mamma, t’ho spiata nel deserto
tutta ridente in un vestito nuovo
colma di mare, lieta di ventura.
Sai, mi dicevi, è un attimo, credevo
fosse molto di più … corre veloce
e dopo è tutto cielo che t’insegue.
A voler tentare di disegnare una mappa dei poeti contemporanei sulla base della loro collocazione geografica, non si può fare a meno di notare che il gruppo dei poeti marchigiani spicca, tra gli altri, per il dinamismo interno che li anima, per la passione che mettono nel dibattito in corso sulla poesia e sull’arte, per la continuità e la solidità dei risultati raggiunti sul piano della creatività personale. Alcuni di loro sono da tempo noti al pubblico della poesia: Gianni D’Elia, Umberto Piersanti, Eugenio De Signoribus, Leonardo Mancino, autore, tra l’altro, di una delle Antologie della Poesia più interessanti pubblicate da Caramanica Editore e intitolata “L’utopia reale” (1994). A questi nomi vanno aggiunti quelli dei più giovani Francesco Scarabicchi e Filippo Davoli. Quest’ultimo, nato a Fermo nel 1965, vive e lavora a Macerata. Ha pubblicato sei libri di versi, tra cui si ricordano “Alla luce della luce” (Nuova Compagnia Editrice, 1996, con introduzione di Franco Loi), “Un vizio di scrittura” (Stamperia dell’Arancio, 1998) e “Una bellissima storia” (Stamperia dell’Arancio, 2000) finalista al Premio Dario Bellezza 2001. Davoli figura tra i vincitori del Montale 2001 per l’inedito e del Premio di Poesia Minturnae 2001 per la sezione giovani. Compare inoltre tra i poeti inseriti nella recente antologia “Il pensiero dominante” a cura di F.Loi e D.Rondoni (Garzanti, 2001). Ha di recente fondato, con Giovanni Cara, la rivista bimestrale “Ciminiera”. I due testi qui riportati sono tratti dal suo ultimo libro; dedicati alla madre scomparsa, appartengono alla prima sezione intitolata “Canti del ritorno”. Da essi si evince con chiarezza che la cifra più autentica di questa poesia è la levità, che tuttavia non toglie corposità a un dolore che tutti hanno provato nella vita, quello di perdere una persona cara. Ancora l’idea della morte come perdita, assenza, abbandono (che può riguardare la fisicità delle cose, ma non il ricordo di esse), torna nella seconda sezione intitolata “Del mare”: un mare invernale (“Sul mare ci hanno messo la neve / attacca sulla rena e si congiunge / miracolosamente all’acqua … ) ispira versi intrisi di malinconia appena addolcita dall’evocazione del caro fantasma: “Qui di domenica sembra apparire la voce / di mia madre che dice che meraviglia / e il freddo ammutolito come un’eco / che si perde al largo //”.
La terza sezione, che dà il titolo al libro, è la più ricca di testi solo apparentemente slegati tra loro; in realtà essi, nella loro disomogeneità, paiono sottendere il significato ricco, vario e mutevole della vita stessa, tramata di “piccole cose” che hanno un “sapore dimesso” ma che acquistano alla fine, proprio perché di tutti, insospettate valenze e inediti significati. E allora può anche accadere che “In questa solitudine che avevo tanto temuto / scopro invece una delicata pienezza / e come un senso di pace / e proprio ora //”.
Giovanni Cara – Poesia dell’incontro. Quattro movimenti di Filippo Davoli , nella rivista “Portales” 2/2002

Ho conosciuto Filippo Davoli in circostanze curiose, circostanze che rendono ancor più significativa, attualmente, la convinzione che la parola, quando si incarna in quello che non ho alcuna ritrosia a definire evento (miracolo, direbbe Montale), sa essere più comunicativa e densa di qualunque e-mail, chat, sms e via baloccandoci con gli attuali veicoli che attraversano l’etere. Perché ci siamo conosciuti proprio in una di quelle piazze virtuali, evito di dire postmoderne, che l’architettura del web apre a decine. Ed è curioso come, nel totale anonimato di un nickname, cioè di uno pseudonimo senza ulteriori specificazioni se non quella del nome proprio accanto alla città di provenienza, ci siamo subito riconosciuti come anime affini. Le mani sulla tastiera, senza un volto, si sono scambiate alcune battute e rese conto che avevano qualcosa in comune: l’amore per la poesia, per i libri, per la musica.
Mi piace la suggestione di questo incontro, e mi scuso se ne inseguo per un istante il significato. Un incontro che testimonia, a dispetto di quanti sostengono che il futuro del libro sta nello schermo freddo di un personal computer o di una scatola elettronica, che è vero proprio l’opposto e che l’arte riesce a penetrare dappertutto e smuovere le cose come un maestrale violento per poi ricomporle fuori da un monitor e consentire l’incontro tra due persone (non più nomi di uno spazio inesistente) nei luoghi più consoni per chi ama i libri. Come in una trattoria di Cagliari o di Macerata, attorno a un tavolo a parlare, in una classica locanda dei “destini incrociati”, per usare le immagini dei miei Miguel de Cervantes e Italo Calvino. Una locanda fumosa ed umanissima.
Così, anticipo fin d’ora che, in queste poche righe, non renderò del tutto merito alla raffinatezza e densità della poesia di Filippo Davoli con una lettura filologicamente accurata. Ritengo che il fascino dei libri belli consista nel fatto che essi riescono ad adattarsi agli stati dell’animo, perché, come dice Filippo spesso, sono proprio i libri che ci cercano e non noi che cerchiamo loro. Perciò, preferisco seguire la suggestione della mia lettura, di un percorso personale tra alcune poesie che mi sembra corrano lungo un filone che le accomuna (del resto, esistono molti modi per entrare fra le pieghe di un testo e, forse, a maggior ragione di una raccolta di poesie, che per quanto concepita e scandita dall’autore, a differenza del romanzo, ha la prerogativa d’essere come una stanza dalle mille porte attraverso cui scegliere di entrare).
Dopo avere letto Una bellissima storia ed esserne rimasto piacevolmente impressionato, ho voluto incontrare l’autore. Una volta è naufragato lui, dal mare d’acque, a Cagliari. Una seconda volta sono andato io a Macerata: entrambi abbiamo così gustato i sapori e aspirato i profumi dei nostri luoghi, sicché le pagine si sono animate di preziosi dettagli d’esistenza. Da Macerata a Recanati, dove Filippo mi ha accompagnato con la piacevolezza affabulatoria di cui è dotato, il cammino è breve su per le strade che circondano i colli dolci e ondosi, come Filippo ama dire, del maceratese. Due mari, allora, uno d’acque e l’altro d’erbe, il mio e il suo, che ci accomunano nel movimento corposo e morbido delle parole. Con Filippo, sul Colle dell’Infinito, ho compreso – direi meglio, preso, afferrato e portato via con me – quel viatico straordinario che è l’ultimo verso dell’Infinito.
E il naufragar m’è dolce in questo mare: le parole covano nella sensibilità, filtrano dalla ragione ma radicano profondamente nel loro lento sedimentare sui luoghi del nostro vivere. Non avevo mai pensato a quanta vita dei colli recanatesi, che Leopardi aveva dinanzi agli occhi, palpitasse in quel verso.
La poesia di Filippo è così: è vita, prima di tutto. E poi è parola, una parola che si incarna – profeticamente – per ritornare alle cose, agli uomini, al dialogo fitto ed agli incontri. “La vita è l’arte dell’incontro”, ama dire Filippo citando Vinicius de Moraes. Aggiungerei io, parafrasando, che per Filippo anche la poesia, in quanto strumento, in quanto accidente che al poeta è toccato in sorte d’avere, è arte dell’incontro. Banale sillogismo ci porta ad inferire che senza la vita, senza il movimento talvolta amaro delle cose, la poesia è parola vuota, fine a sé stessa, che non si incarna.
Incontrare gli altri, comunicare, è spesso faticoso. Implica uno spostamento non solo fisico ma anche – soprattutto – interiore. E l’immagine del cammino, della ricerca che conduce all’incontro che poi va coltivato col dono sacro della parola è carissima a Filippo. Anzi, direi che sostanzia la ragione stessa del suo ultimo libro, Una bellissima storia, dove già per sé la storia è un percorso lungo le proprie strade e per i propri luoghi. Luoghi che non sono mai concepiti come vuoti, solitari; sono intensamente abitati da mille destini che Filippo incrocia: dediche, citazioni, riferimenti alla quotidianità di una comunità rendono i suoi versi una bellissima città a misura d’uomo.
Vorrei qui fare un breve cenno, per spiegarmi e restituire l’immagine che ho avuto nel vedere i collages di Filippo, proprio alle sue composizioni figurative, dove si insiste su qualche immagine reale o appartenente alla nostra tradizione pittorica usandola come sfondo, per “incollarvi” o riprodurvi con la tecnica del fotomontaggio profili a lui noti, sagome e ritratti di persone che hanno avuto un tratto significativo nella sua vita e che rappresentano la ricerca delle sue radici. Le piazze, i locali, le stanze vuote si animano della sua gente. Della sua comunità.
La medesima impressione possono darci i suoi versi con una magica suggestione evocativa e pittorica. Il suo camminare diviene tuttavia il nostro camminare, ché diversamente la poesia non si incarnerebbe. Un cammino attraverso il tempo e lo spazio, una storia di incontri, perdite, nostalgie, miracoli imprevisti e gesti minimi che poi divengono emblematici. Così, anche il tema dell’incontro può avere il duplice valore della magia e dell’incanto da una parte, della sofferenza e del distacco dall’altra. Gli incontri sono imprevisti, ci capitano tra capo e collo, proprio come i libri. Succedono, accadono senza che noi ne possiamo prevedere i tempi e la scansione. E tutto si basa su un sottilissimo e tenue filo di immagini, profumi, gesti evocativi. Un semplice tratto, una svista.
Tra simili ci si conosce al volo.
Si riconosce un tratto, una svista,
i sillogismi del cuore. Specialmente
se poi un’ansia di coprire fa scoprire
le carte, svelare i sogni, diciamo così
Ma è un gioco per pochi intimi e forse
una tacita complicità destinata
al suo privato oblio.
That’s all.
Tutta la densità del primo verso, vitalissimo e dal profumo intenso di una invocazione, si riverbera poi nella malinconia e quotidianità del finale. That’s all. Questo è tutto: come per chiudere una questione e rimandare tutto al prossimo pensiero, alla prossima poesia. Come uno scatto improvviso, uno struggimento che è già divenuto volontà di proseguire la bellissima storia verso un altro incontro. That’s all.
Il rapporto con il tempo è basato su un ambiguo atteggiamento di amore e odio. Filippo lo insegue dentro l’immobilità paradossale del suo trascorrere, fra le storie dell’esistenza e la storia personale dell’esistere: un tempo immobile, catturato nell’immagine del locale dove si gioca a biliardo e che immaginiamo avvolto nella semioscurità delle luci soffuse, tra i fumi e le persone che maneggiano la stecca da biliardo, magari un bicchiere poggiato sulla cornice del tavolo.
Se Ti incontrassi davvero
al Bar del tempo
forse pioverei nei tuoi occhi
ma mi risucchierebbe di là
la sala da biliardo
e la fumea che ne colora le ore.
Io giocare non so: preferisco guardare
l’attimo in cui la canna
schiocca sulla biglia color crema,
afflitto come sono dalla smania
di frenare gli istanti, di calarmi
dentro la vita (Tu che faresti?)
forse in quegli occhi Tuoi
potrei arrestare l’ansia di questa corsa
senza finale
con le tappe intermedie che si accavallano
se solo Tu abbandonando il bicchiere
apparissi per caso sull’uscio
a cercarmi di nuovo.
Ecco, allora direi
che forse non era grave scivolare
sul piano verde tra i birilli scomposti
se Tu venissi a chiedermi di andare
perché s’è fatto tardi.
La sala da biliardo, allora, diviene un bar assoluto del tempo, diventa un luogo altro e fuori dalla misura crono-logica, per seguitare a giocare coi paradossi di Davoli, un luogo nel quale si cerca con smania di frenare gli istanti (un altro paradosso: la frenesia della non frenesia); si spera, almeno si spera, di vedere comparire sull’uscio la figura di un altro incontro, in un’atmosfera cinematografica dall’intenso tratto figurativo: talché ci rimane impresso, assurdamente, il volto di un’assenza. La figura che si spera di vedere ma non si vede: se tu venissi a chiedermi di andare / perché si è fatto tardi.
Affascinante questa capacità della parola di legarci all’assenza di un’immagine, più che all’immagine stessa (se tu venissi: ma non ci sei). In questo caso, cioè, l’andare via perché si è fatto tardi è proseguire lungo il filo di una bellissima storia con niente altro che la speranza di non essere più soli. Proseguire il cammino con il desiderio di un incontro e con la speranza che l’incontro ci possa essere, al bar del tempo e in un’altra poesia. In questo caso, davvero esemplare della poesia – o, se è ancora concesso usare tale terminologia, della poetica – di Filippo, c’è il racconto della contraddizione fra il desiderio di vivere nel mondo e la difficoltà ad esserci, a sincronizzarsi con i suoi movimenti; l’evocazione di uno scotto da pagare alla lucidità con cui si osservano le cose ma che impedisce però di aderirvi completamente. Il divario tra la contemplazione e la materialità del vivere, se si vuole: o ancora meglio, il contrasto tra chi il mondo lo vive da dentro, senza poterne valutare l’interezza, e chi invece è capace di uno sguardo sintetico, da un osservatorio privilegiato e complessivo, ma che il più delle volte, non potendo viverci dentro, subisce l’esistere come la condizione di un disadattato.
Ma Al bar del tempo può ancora accadere l’evento dell’incontro; c’è lo scatto miracoloso di un accadimento che poi è sempre una ricerca e una speranza che tale accadimento si verifichi, più che la sua realtà e certezza. Ed entriamo, per l’ingresso principale, dentro un altro tema di Filippo, quello di una profonda intensa religiosità che anima molte sue pagine, direi anzi tutte, anche quando non s’affaccia con evidenza. Una religiosità che da una parte gli fa sentire l’altissimo valore e la responsabilità impliciti nel fare poesia, dall’altra tributa al poeta la capacità profetica dell’intermediazione tra il qui ed ora e l’Altro come altrove da qui. La ricerca tra gli uomini diventa anche una ricerca con gli uomini per una possibilità di riscatto più ampia. Con le parole che Filippo Davoli ama dire spessissimo: la poesia è un accessorio, è strumento. Non può esistere fuori dal mondo e dalla vita che lo anima.
Ecco allora il senso radicalmente profetico della parola evocativa che galleggia nel bar del tempo: dice Davoli di aver voluto esplicitamente dialogare con il libro omonimo Il bar del tempo di Davide Rondoni: “nel testo che dà il titolo al libro l’autore accompagna Gesù Cristo al bar. Qui ho sentito affiorare un’ipotesi di incontro ulteriore nello stesso bar” (vedi nelle note in calce al libro di Davoli).
Ebbene, sono sempre contrario alle note d’autore nei libri, perché mi danno l’impressione di una certa nostalgia che l’autore stesso ha per il proprio testo, quasi di volontà a non staccarsene del tutto nel consegnarlo ai lettori. Preferisco sempre l’ambiguità, preferisco che l’autore non dia segnali e che lasci scoccare dall’incrocio tra la sua anima e quella del lettore la scintilla dell’interpretazione. Tuttavia, qui, la spiegazione di Filippo ha un senso imprevisto, perché crea, come in abisso, in una vertigine di senso, l’occasione per un molteplice incontro: tra Davide Rondoni e Cristo; tra Filippo e Davide Rondoni (o meglio, tra le poesie dell’uno e dell’altro); tra Filippo e Cristo (o il desiderio di Cristo); tra Filippo e noi e così via ricostruendo i circoli che, dal più stretto al più esterno e ampio, vanno allargandosi poco a poco come cerchi nell’acqua. E vanno restituendoci il senso della poesia che è incarnazione del verbo. La poesia diviene allora parola che ha messo immediatamente in contatto l’uomo con l’uomo e l’uomo con sé stesso e con la propria ricerca del senso che ha il vivere (o il continuare a vivere: l’incontro con Cristo evoca forse il senso di una stanchezza per il tempo materiale?) e il medesimo fare poesia.

Parola chiama parola e libro chiama libro. Per me, aver letto per prima la raccolta più recente di Davoli, significava giocoforza iniziare un cammino, una storia cui ora potevo anche dare una sagoma, il profilo dolce e marino dei colli maceratesi. E riconoscere, percorrendo a ritroso la storia poetica di Filippo per approdare al suo libro precedente, che per lui la parola è uno stato di necessità, è un vizio di scrittura.
Come un vortice dolce di vento che spariglia improvviso le carte sul tavolo da gioco; come un mulinello imprevisto che scompiglia le foglie sul terreno e sembra il passare di un’auto silenziosa lungo qualche stradina di campagna che si inerpica su per chi sa dove. Leggeri, i cambiamenti insistono sulle cose poco a poco: piccoli miracoli, sguardi, subitanei spostamenti dell’anima. In un istante, la presenza di intuizioni minuscole (di un click improbabile, dice in un verso della bellissima storia) e pacificatorie:
Spesso è come nell’aria
un nuovo darsi delle cose.
Sorge nei fiori
e prelude alla neve
e galleggiando in te d’intorno dice
che un altro tempo incombe
e si dischiude.
Intuizioni minuscole sottendono
alla gelida notte. Guardo
sovente la sua pace. Penso
in me un porto. Riposo.
Qui, il movimento della lettura e del pensiero diventa gradatamente verticale, come una musica che propone il tema, si allarga ed espande tutt’intorno per raccogliere le possibili pulsazioni del mondo e dopo costringe a cadere giù giù, fin dentro l’animo, porto di noi stessi. E poi il riposo, il sospiro di pace, la sedazione, l’ultima nota appena prolungata di un canto largo. Guardo, penso, riposo: il ritmo del respiro vitale. In Parva cè la musica e l’evocazione figurativa, prima di tutto, che ci costringono a impadronirci di ognuna delle sue parole e seguirne l’incanto sino all’ultimo, fino a che esse riescono a diventare nostre, disponibili a farsi piegare (dote rara questa, in epoca di artifici di maniera in cui, alla pastosità e densità della parola duttile, si preferisce la freddezza e la rigidità del ragionamento. Lo dico pensando a molti libri che ultimamente si pubblicano poesia e narrativa – incapaci spesso di avere il coraggio di volare alto, di uscire dal bozzettismo senza alcun respiro, ancorché non poetico, almeno narrativo: Filippo non teme il confronto con le parole e, in certo senso, le lascia libere di creare altro dall’immediata orizzontalità della lettera. Fa che la parola divenga immagine e che a questa si accompagni una musica: non un gioco a tesi e neppure una fredda architettura di segni matematici, ma un impegnativo compromesso con la vita, per il quale il testo, dopo, è anche di chi ha avuto sufficiente coraggio per entrarvi dentro. O, forse meglio, di chi ha avuto il coraggio di farsi abitare da esso).
Mamre, a mio parere, è uno dei momenti più intensi di Davoli, dove quasi si crea l’effetto eco di un ascoltare interiore:
Nel tempo
non del tempo
soltanto in transito
svanendo e rinascendo poco a poco
non del tempo
nel tempo
Si impasta come l’immagine di un dialogo con sé stessi, all’ombra della quercia di Abramo e sotto le ali degli angeli emissari:
stando come si sta
tra le foglie e la terra. Poi la notte
la lunga notte mai scesa, perenne
ci si riprende gli occhi
e così via.
Ma è per via
che troveremo il giorno, riposando
sopra la roccia
all’ombra delle querce.
Mistero, suggestione, musica, immagine e una perfetta densa sensazione di pace. Nel frattempo, il lettore (che oramai è quasi costretto a pronunciare i versi di Davoli ad alta voce) aspetta il miracolo di un’altra poesia che violi il paradosso di questo silenzio eloquente. Anche se gli costa fatica. Anche se è un gioco per pochi intimi e forse / una tacità complicità destinata / al suo privato oblio.
That’s all.